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In Sardegna più pensioni che buste paga: «Puntiamo sulla formazione»

di Andrea Sini
In Sardegna più pensioni che buste paga: «Puntiamo sulla formazione»

L’economista Deidda: «Non è solo colpa del declino demografico. Manchiamo nella preparazione di lavoratori al passo con le richieste»

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Sassari «Il mondo del lavoro ha problemi strutturali che vanno affrontati sua dal lato della domanda che dell’offerta, lavorando sulla formazione e sul sistema di infrastrutture materiali e immateriali per favorire le imprese». Più pensionati che lavoratori, più trattamenti erogati dall’Inps che buste paga, con la forbice destinata ad allargarsi ulteriormente e trend che presto si estenderà anche alle regioni più ricche.

La Sardegna segue il trend delle regioni del meridione, con l’unica eccezione rappresentata dalla città metropolitana di Cagliari. Luca Deidda, docente di Economia al dipartimento di Scienze economiche e aziendali dell’Università di Sassari, prova a leggere tra le righe di questa preoccupante statistica.

«Di solito andamento demografico, invecchiamento e lavoro nero vengono indicati come cause principali del fenomeno – dice Deidda –. In realtà non credo che avere più giovani risolverebbe il problema. L’Italia ha un tasso di occupazione tra i più bassi d’Europa, abbiamo dunque un capitale umano non abbastanza utilizzato. L’incapacità di utilizzare la forza lavoro è il problema vero. Fare più figli e avere più giovani, italiani o stranieri, non basta: bisogna riuscire a far sì che questi giovani siano capaci di esprimere il loro potenziale e acquisire le competenze necessarie per essere appetibili nel mercato del lavoro».

Da dove nasce questo gap? «Sia dall’offerta che dalla domanda. Dal lato dell’offerta – sottolinea l’economista – la forza lavoro italiana non occupata non ha da offrire ciò che serve alle imprese italiane, cioè mancano le competenze che servirebbero. Dal lato della domanda, questa è meno solida rispetto a quella delle imprese di altri paesi europei, che pure soffrono l’invecchiamento generale della popolazione quanto noi. Ma le imprese italiane sono meno produttive di quelle straniere». Si tratta dunque di un problema strutturale.

«In generale, scarsa produttività delle imprese e scarse competenze di una parte consistente della forza lavoro vanno di pari passo. Forse le imprese sono guidate da manager non adeguatamente preparati. E anche là dove c’è un potenziale per esprimersi al meglio, il sistema di infrastrutture materiali e immateriali dello Stato, non sono adeguate. L’Italia è il Mezzogiorno d’Europa, e la Sardegna con il suo dato si colloca nel Meridione d’Italia. Con il dato di Cagliari che mi pare interessante, dato che il capoluogo pare come un ecosistema che va a un passo diverso rispetto al resto dell’isola».

Quali soluzioni bisognerebbe adottare? «Quelle ventilate sin qui non si sono rivelate adeguate. Intanto l’idea populistica sbandierata da vari governi, soprattutto di matrice leghista, che quota 100 sarebbe stata sostenibile, e si è rivelata una panzana. Dati alla mano, occorrono due pensionati per fare un nuovo posto di lavoro. L’ipotizzata sostituzione tra pensionati e nuovi occupati è ben lungi da quella che si credeva. Il rapporto è di 0,4-0,5 e non c’è evidenza di correlazione significativa. Non servono neanche le politiche congiunturali, tipo il famigerato 110. Servono invece soluzioni strutturali – dice il professor Deidda –. Bisogna migliorare tutto il sistema, dalla burocrazia ai trasporti, dalla qualità delle persone a quella delle istituzioni. Il sistema di formazione è fondamentale, e l’enfasi non va messa solo sulle università e sul diritto allo studio, ma sul diritto a sviluppare competenze dell’infante, tra 0 e 5 anni. Secondo tutti gli studiosi, ciò che succede in quel periodo determina in maniera statisticamente significativa la performance che l’adulto avrà nella società. L’Italia deve investire su una formazione di qualità dagli asili alle scuole. E le università devono aprirsi alla competitività, cioè devono fare posto ai migliori. Cosa che in Sardegna non accade, così come non accade in molti atenei del sud Italia».

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