Mancano 320 medici di base: nell’isola scoppia l’emergenza
La denuncia di Antonello Desole (Fimmg): «Almeno 300mila sardi senza assistenza fissa». I giovani camici bianchi scoraggiati da paghe basse e alti carichi di lavoro
Cagliari Oltre 320mila sardi non possono fare affidamento su un medico di famiglia titolare, ossia quello che conosce bene i propri pazienti sia dal punto di vista fisico sia sotto il profilo psicologico, tanto che spesso ne intuisce le patologie con un semplice sguardo: il riferimento sanitario capace oltretutto di fare da filtro evitando che si intasino i pronto soccorso.
Il motivo di questa situazione? Nell’isola i posti scoperti sono 320 e, per dirla tutta, non è che ci sia esattamente la fila di giovani camici bianchi pronti a cimentarsi in questa attività basilare: considerando che ognuno di questi 320 medici avrebbe in media mille assistiti si arriva appunto al numero inquietante di 320mila. E anche se ultimamente si è cercato di tappare la falla ingaggiando circa 180 supplenti temporanei o con i cosiddetti Ascot (Ambulatori straordinari di comunità territoriali), il quadro resta comunque emergenziale e intollerabile, non fosse altro perché a conti fatti in Sardegna i cittadini sopra i 14 anni totalmente privi di assistenza medica di base rimarrebbero 40mila.
A denunciarlo è Antonello Desole, vicesegretario regionale della Federazione medici di Medicina generale, che oltre a elencare i motivi alla radice del problema individua alcuni possibili rimedi.
Giovani scoraggiati «È inutile girarci intorno – spiega Desole –, tra le varie ragioni che hanno portato a questo contesto c’è quella che i giovani medici non sono certo invogliati né in termini economici né per quanto riguarda i carichi di lavoro a svolgere l’attività, specie nei centri più piccoli e decentrati. Il medico di base è una figura che richiede un impegno importante: la copertura oraria va di fatto dalle 8 alle 20, perché il lavoro non finisce con le visite in ambulatorio. Dopo ci sono le prescrizioni via Whatsapp e via email, poi ci sono le case di riposo che vanno seguite con attenzione. E ancora, ovviamente, le visite domiciliari: quelle richieste al mattino e quelle programmate. Non è una passeggiata, insomma».
Gobba pensionistica A questo primo punto evidenziato da Desole va aggiunto un turn-over molto limitato tra chi è andato in pensione e chi ha iniziato la professione. «Spiace dirlo – sottolinea il vicesegretario regionale della Federazione medici di famiglia – ma qui siamo davanti a un caso di mancata programmazione, sia a livello nazionale sia in Sardegna. Già in epoca pre Covid si sapeva benissimo che molti colleghi sarebbero andati in pensione, poi la pandemia ha addirittura accentuato le fuoriuscite. E adesso nell’isola la carenza di medici di base è pari al 25 per cento».
Zone disagiatissime Desole evidenzia inoltre come oltre alla cattiva programmazione sul problema incida anche lo scarso appeal che hanno i centri disagiatissimi (si tratta di un termine tecnico): «È inutile negare che, specie in Sardegna, il dover lavorare in paesini molto lontani dalle città e dai principali presidi ospedalieri, quindi con pazienti esposti a difficoltà di soccorso immediato, non attrae i colleghi. Talvolta per arrivare al massimale di 1500 assistiti ci si trova a operare in 2 o 3 ambulatori dislocati in altrettanti villaggi di 200, 400 o 900 abitanti. Con spese altissime per i medici».
Burocrazia asfissiante Come se tutto ciò non bastasse, il vicepresidente regionale della Fimmg mette l’accento anche su un’altra questione: «Siamo sottoposti a una pressione burocratica spaventosa, oltre all’aspetto squisitamente sanitario dobbiamo occuparci di compilare i Piani terapeutici oppure cartelle di 38 pagine per l’avviamento dell’attività. Siamo chiamati persino a prescrivere i panni per le donne ospiti nelle casa di riposo. Così non va, bisogna almeno provare a trovare un rimedio» .