La Nuova Sardegna

L’intervista

Alessandro Nivola: «Da nonno Costantino ho preso l’amore per l’arte e per la Sardegna»

di Alessandro Pirina
Alessandro Nivola: «Da nonno Costantino ho preso l’amore per l’arte e per la Sardegna»

L’attore reduce da una trionfale Mostra di Venezia: «L’isola è il luogo del cuore: sogno una casa a Orani»

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Alessandro Nivola è seduto nello studio della sua casa di New York. Alle sue spalle ci sono foto di famiglia e immagini delle opere del nonno. In mezzo a tanti post-it si intravedono anche i Quattro mori. Non appena glielo fai notare lui sorride, sposta la sedia e mostra un’altra parete su cui è issata una mega bandiera sarda. In qualche modo la sua bandiera. Nivola è molto legato all’isola, la terra di suo nonno, o meglio di Costantino, come lo chiama lui. Quando parla di Sardegna, di Orani gli sorridono gli occhi. E anche quando si parla di cinema spera sempre che i suoi film arrivino nelle sale dell’isola. Quest’anno il suo sogno non resterà inesaudito, visto che è reduce da una Mostra di Venezia stellare. Due film in concorso, “The brutalist” di Brady Corbet al fianco di Adrien Brody e “La stanza accanto” di Pedro Almodovar con Julianne Moore e Tilda Swinton. Il primo premiato dalla giuria di Isabelle Huppert per la migliore regia, il secondo trionfatore assoluto della Mostra con il Leone d’oro.

Alessandro, com’è stata questa Mostra del cinema?

«In passato a Venezia ero stato solo in vacanza con mia moglie. Non avevo mai avuto un film al festival. Averne due nello stesso anno è stata una cosa incredibile. La Mostra di Venezia è il festival più importante del mondo, esserci è sempre stato il sogno della mia vita. Per di più, negli ultimi anni Venezia è diventato il festival che dà il via alla stagione dei premi. Quasi tutti i film più prestigiosi iniziano la corsa a Venezia e dunque tutto il mondo del cinema sta sempre a guardare cosa succede alla Mostra. Poi, ovviamente, per me Venezia è qualcosa di sentimentale: è il collegamento tra il mio mestiere e la storia della mia famiglia».

Che effetto fa essere nel cast dei due film più apprezzati della Mostra?

«Sarebbe stato impossibile da predire, anche perché ho girato “The brutalist” due anni fa e “La stanza accanto” solo quattro mesi fa. Ho saputo che Almodovar sarebbe stato alla Mostra appena un mese prima del festival. Immaginavo che “The brutalist” sarebbe stato perfetto per Venezia, Brady ha vinto il suo primo premio, a 25 anni, proprio alla Mostra. Per lui Venezia è un posto amichevole. Almodovar, invece, di solito va a Cannes e pensavo sarebbe stato così anche questa volta. Credevo di dover aspettare un anno per vedere il film. Non l’avevo visto prima della première».

Partiamo da “The brutalist”, la storia di un architetto ungherese che emigra negli Usa dopo la seconda guerra mondiale. Rivede somiglianze con la storia di suo nonno Costantino?

«Quattro anni fa ho conosciuto Brady su Zoom, era il primo mese di lockdown per il Covid. Mi aveva chiamato per chiedermi se volessi fare un film con lui in Polonia. Mi aveva sorpreso perché il lavoro era tutto fermo. Mi parlò di tante cose, poi lessi la sceneggiatura e la prima cosa che mi venne in mente è che in quel momento ero nella casa di nonno e nonna a Long Island. Costantino era grande amico di Le Corbusier e proprio nella casa di nonno c’è un suo murale, che, in quella diretta Zoom, era alle mie spalle. Allora ho raccontato tutto a Brady, anche perché Le Corbusier era il padre del movimento del brutalismo: lui è rimasto scioccato. Per non parlare della storia dell’incontro tra mia nonna ebrea (Ruth Guggenheim, ndr) e mio nonno cattolico...».

I suoi nonni emigrarono negli Usa per sfuggire al regime nazi-fascista.

«Si erano conosciuti all’Istituto d’arte di Monza, erano compagni di corso. Una notte vennero svegliati da un amico per avvertirli che stava per arrivare la polizia. Alle due del mattino fecero i bagagli e scapparono insieme prima dell’alba. Una storia drammatica, spaventosa. Una delle tante storie d’orrore che visse l’Europa di quegli anni. Brady non riusciva a credere al collegamento tra la mia storia personale e quella del suo film. Tra noi è stato un primo incontro emozionante. Poi durante le riprese parlavamo sempre della storia della mia famiglia. Lui ha fatto molte ricerche su Costantino, su Le Corbusier. Brady sa veramente tanto di storia dell’arte, storia dell’architettura».

“The brutalist” è anche una critica dura agli Usa. Possiamo definirlo un american dream al contrario?

«Secondo me non è un film politico, ma la storia di una artista che vuole fare qualcosa di molto ambizioso e dei tanti sacrifici che fa per realizzare il suo sogno. Certo, anche oggi negli Usa c’è Trump che vuole usare gli immigrati per spaventare la popolazione, per prendersi la presidenza. Ma non è una storia sul sogno americano. Questa è una sceneggiatura scritta sette anni fa, Brady voleva scrivere la storia di un artista che era scappato dal suo padrone. È una metafora della vita, ma è anche la sua storia da regista».

Trump o Harris: chi vincerà?

«Dopo l’ultimo dibattito Kamala è più forte, ha fatto un buon lavoro, anche perché battere Trump in un dibattito non è cosa facile, lui ti parla sempre sopra. Ma nonostante il personaggio pazzo, Trump ha ancora una forte presa, riesce a cogliere la rabbia di parte della popolazione. Senza contare che c’è ancora tanta gente che non accetta di avere una donna come presidente. Ma ogni giorno che passa lei sta mostrando di avere la stoffa per la Casa Bianca. Finché c’era in corsa Biden Trump appariva più giovane, oggi è il contrario. Kamala ha un aspetto energico, fa capire che ci può essere un futuro pieno di speranza. Purtroppo, però, c’è metà della popolazione che ha paura degli immigrati, dell’economia, dei prezzi alti. Gente che deve fare i conti con i soldi dell’affitto, la spesa di tutti i giorni. Un problema che esiste in tutto il mondo dopo il Covid, l’inflazione è alta dappertutto. In America Biden ha fatto tanto per abbassare il costo della vita ma i risultati non si possono ottenere in un giorno. Forse tra un anno o due gli stipendi aumenteranno, ma in questo momento la gente non riesce ad accettarlo. Trump promette che lui correggerà la rotta immediatamente perché sa che la gente vuole sentirsi dire questo».

“The brutalist” dura 3 ore e 35 minuti. La ha spaventata questa scelta di Brady Corbet?

«No, non mi ha spaventato. Oggi per fare un film si deve creare un evento, fare qualcosa di diverso affinché la gente lo guardi. In questo caso il film è così lungo che la sua durata è diventata un evento. La casa di produzione aveva chiesto a Brady di accorciarlo, ma lui mi ha spiegato che togliendo 15 minuti, o anche mezz’ora, sarebbe stato comunque un film di 3 ore o di 2 ore e 50 minuti. A quel punto sarebbe stato comunque lungo. Meglio lasciarlo così. Per una volta ci si può sedere sulla poltrona, spegnere il cellulare e godersi 3 ore e 20 di film più intervallo. La storia è molto avvincente, ci sono film di un’ora e mezza molto più noiosi».

Invece, in “La stanza accanto” ha un ruolo più piccolo . Come è stato lavorare con Pedro Almodovar?

«Ovviamente se Almodovar chiama bisogna sempre dire di sì. Quella era una situazione del tutto diversa, era una sola scena di una storia molto più piccola. Ma è una scena del film molto importante. Pedro mi ha invitato ad andare a Madrid per una settimana un mese prima delle riprese per fare le prove. Abbiamo trascorso sette giorni intensi. Il mio è un personaggio di New York, un poliziotto locale tradizionalista, molto religioso. Era buffo perché la stanza in cui ci trovavamo io e Julianne (Moore, ndr) era a Madrid. Pedro era sempre molto preciso, concentrato sul significato di ogni singola parola. Avevo paura che le riprese sarebbero state dure a causa del suo metodo di lavoro».

Com’è andata?

«Dopo la settimana a Madrid sono tornato a New York e ho fatto un po’ di ricerca su Youtube, ho visto molti interrogatori. Lui voleva rendere il mio personaggio abbastanza veritiero ma allo stesso tempo mi rendevo conto che il mondo di Almodovar non era un mondo vero, era quasi surreale. E così dovevo decidere se fare il mio ruolo come un vero poliziotto o come l’archetipo del poliziotto del mondo di Pedro. Avevo paura che la mia interpretazione fosse troppo newyorchese, neanche con l’accento di Manhattan ma molto più del Middle west. Ma avevo paura di essere in contrasto con lo stile del film. Ho affrontato con Pedro questi dubbi e gli ho mostrato le foto di veri poliziotti che portano sempre la stessa divisa: polo nera, pantaloni marroni. Durante le prove, però, a Madrid avevo incontrato il responsabile dei costumi e mi aveva detto che avrei dovuto indossare una cravatta rosa e un completo azzurro. Quando faccio vedere la foto a Pedro, lui mi fa: interessante».

L’ha convinto?

«Torno dopo un mese per le riprese e nella mia stanza trovo tutti i vestiti della foto che gli avevo mandato io. In questo modo ho capito che a lui piaceva la mia interpretazione, la mia idea di farlo. Un poliziotto vero ma all’interno di una stanza inserita nel mondo di Almodovar tra una sedia rossa, una azzurra, la maglietta verde di Julianne, i suoi capelli rossi».

Pedro Almodovar a Venezia ha detto: tutti i Paesi devono riconoscere l’eutanasia. Cosa ne pensa?

«Come tutte le questioni morali ci sono delle situazioni in cui una persona deve potere decidere della propria vita. In questo caso poteva anche scegliere di continuare a vivere. ll film di Pedro è una meditazione su quale può essere il modo giusto per fare finire una vita».

Sua moglie, Emily Mortimer, è attrice come lei, vi siete conosciuti sul set. E anche i vostri figli hanno intrapreso la vostra strada. Ora Sam è accanto a Nicole Kidman in “The perfect couple”.

«Non lo avevo previsto. Sam era uno studente bravo, frequentava la Columbia university di New York. Studiava il latino, il greco, la storia antica. Sono stato molto sorpreso da questa sua passione per la recitazione, per il cinema. Ma lui è una persona particolare, non vuole sentire consigli, preferisce andare per la sua strada. Se lui è felice lo sono anche io: non c’è cosa più importante per un padre. In questo momento lui è pieno di ispirazione, speranza per il suo futuro. Sta girando, scrivendo sceneggiature. Ora è in Inghilterra. Sta girando anche la terza stagione di “White lotus”. Quest’anno l’ho visto solo due giorni. Emily è volata da Venezia a Los Angeles per andare alla sua première: un giorno con me, uno con lui. È adulto, sta vivendo la sua vita: una cosa bellissima».

Anche sua figlia May vuole fare l’attrice.

«Lei ha un grande talento, ma dopo “White noise” abbiamo voluto tornasse a scuola. Aveva solo 12 anni ed è giusto che vada a scuola come tutti i ragazzi della sua età. Non c’è fretta. Da poco ha girato una scena con George Clooney nel nuovo film di Noah Baumbach, di cui Emily è co-sceneggiatrice. Baumbach ha detto che è l’attrice-bambina più talentuosa che ha mai visto e che la vorrà in tutti i suoi film. Ma ripeto: c’è tempo, adesso ha 14 anni e magari fra due o tre anni potrà iniziare sul serio. Se vuole, ovviamente. In questo momento della vita i bambini cambiano sempre idea. A lei per esempio piace scrivere poesie».

Intanto lei a dicembre sarà anche nel kolossal della Marvel, “Kraven - Il cacciatore” con Aaron Taylor-Johnson e Russell Crowe.

«Sarò al cinema con tre film in contemporanea: in una settimana usciranno “The brutalist”, Almodovar e Kraven. Tre ruoli completamente diversi tutti nello stesso momento in sala. Una coincidenza pazzesca. Spero tanto arrivino tutti anche al cinema a Nuoro».

Nel suo curriculum manca il cinema italiano: con chi le piacerebbe lavorare?

«Garrone, Rohrwacher, Sorrentino. Vorrei lavorare in Italia per migliorare la mia lingua e anche per passare più tempo a Roma. Sogno di girare a Cinecittà».

Cosa la legava a suo nonno?

«Da piccolo siamo stati molto vicini, perché mio padre lavorava all’università e d’estate avevamo tre mesi liberi. Li trascorrevamo sempre a casa di nonno e nonna. Lui era “babbu” per i nipoti, nonna era “bird”, uccello. A lui piaceva tanto passare il tempo con noi nipoti. Mio fratello Adrian ha imparato a dipingere con lui, io facevo le sculture accanto a lui. Mi preparava dei pezzi di creta per lavorare. Di mattina insieme facevamo gli esercizi fisici. E poi ascoltava la musica country: Loretta Lynn, Merle Haggard. Mi diceva: mi piace molto questa musica, è la musica della disperazione».

Cosa è per lei la Sardegna?

«Sono venuto anche quest’anno a giugno. Cerco di tornare tutte le estati per trovare la mia famiglia. Mi piacerebbe comprare una casetta nella zona di Orani. Magari quando i figli saranno indipendenti possiamo anche pensare di trovare un posto in cui trascorrere qualche mese dell’anno. Orani è un luogo molto importante nella mia vita. Da piccolo, anche prima della mia prima visita, lo conoscevo attraverso le storie di Costantino. Lui mi raccontava spesso le storie della sua adolescenza. Ricordo ancora la prima volta che sono stato a Orani e ho conosciuto i tanti cugini e parenti. Adesso abbiamo un gruppo whatsapp con 10-15 parenti e ci scriviamo ogni giorno. Per loro il sangue è una cosa sacra e io mi sono sentito loro fratello già dal primo giorno in cui li ho incontrati».

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