Annalisa Zirattu Reni, mestiere tanatoesteta: «Così trucco i defunti per l’ultimo viaggio»
Unica nel nord Sardegna, parla di un lavoro difficile da raccontare: «È importante mantenere il distacco, ma non ti abitui mai»
Olbia È un lavoro particolare, di cui è difficile parlare liberamente con le altre persone. Un mestiere che esiste e ha un’utilità fondamentale ma rimane nell’ombra, coperto da un grande silenzio. «In realtà è così oggi, perché fino ad alcuni anni fa i discorsi sulla morte non erano certo un tabù». Annalisa Zirattu Reni, di Olbia, è tanatoesteta. Si occupa della cura e della pulizia dei defunti subito dopo il decesso, prima dell’esposizione delle salme nella camera ardente. Quando una persona scompare, una delle prime telefonate la riceve proprio Annalisa, dall’agenzia funebre incaricata o direttamente dai familiari.
L’olbiese, unica ad avere la qualifica e praticare nel nord Sardegna, e in generale una delle pochissime nell’isola, ha iniziato in modo casuale. «Sì, ho scoperto questa figura nel 2012 su Google, da lì mi sono interessata e ho conosciuto la scuola di formazione funeraria “centro studi oltre” di Bologna». Consegue il primo e secondo livello di tanatoestetica. Inoltre, ha la qualifica nazionale di necrofora, «dietro ci sono tante nozioni anatomiche ma anche burocratiche». Ci sono tempistiche e procedure medico-legali per l’accertamento della morte da rispettare. E poi tutte le precauzioni: «L’azione è limitata, non è possibile occludere le vie respiratorie e non si può fare niente che impedisca il manifestarsi della vita», spiega.
Appassionata di tradizioni funerarie antiche e moderne, di cimiteri («Ho visto quelli monumentali di Sassari, Genova, Parigi, Londra»), ma anche di antropologia, Annalisa Zirattu Reni si trova a svolgere questo lavoro da ormai dodici anni. Tanatoesteta, con quest'accezione grecizzante e misteriosa, fa pensare solo al trucco ma non è così. Lei si occupa anche del resto del visibile, della sistemazione dei capelli e della vestizione, per restituire il corpo nella migliore condizione possibile in cui verrà visto da familiari e cari. Un’attenzione che riesce a dare un aspetto molto simile a quello in vita. «Ci sono alcuni casi dove è necessario intervenire in maniera importante – spiega lei – mi riferisco a persone che perdono la vita per incidenti, per infarti o gravi malattie». In abitazione o in ospedale, entra nella stanza, a volte accompagnata da un familiare che le dà indicazioni («e mi chiedono una ciocca di capelli da conservare»), apre le sue tre valigette: una contiene i kit per il restauro, uno per il parrucco e uno per il camouflage, appunto.
«Non mi impressiono, cerco di tenere un distacco da ciò che sto facendo anche se non ti abitui mai. Però mi emoziono, questo sì e tanto, quando i familiari mi abbracciano o urlano disperati per il dolore della perdita». Da piccola, il padre portava lei e la sorella a passeggiare per il vecchio cimitero, l’interesse era verso le statue, le decorazioni, non avrebbe mai pensato di lavorare in ambito funerario.
Ragionandoci, Annalisa parla di riti ancestrali, basti pensare alle vicine tombe dei giganti, o alle pratiche in cui i morti venivano ricoperti di ocra rossa già dal Neolitico, e parafrasa Epicuro: «Questo lavoro normalizza la morte. Non ha a che fare con la vita, così come la vita non fa parte della morte». In centinaia di interventi, qualche vicenda è rimasta impressa: «Una moglie mi chiese di usare l’impronta delle dita del marito defunto per sbloccare la password del telefono», infedeltà oltretomba. Alcune storie stringono il cuore: «Ricordo il compagno di un ragazzo scomparso, avevano una relazione ma nessuno lo sapeva. Nessuno sapeva che la persona morta era omosessuale, e mi ha fatto male vedere il fidanzato non potere piangere una perdita così grande come avrebbe davvero voluto. Non poteva fare il vedovo davanti ai familiari e a tutti per mantenere quel loro segreto».