Sassari In ventiquattro ore la Sardegna è passata dall’emergenza siccità alla necessità di svuotare le dighe. Un paradosso che, però, non elimina il problema siccità. Anzi. Di questo parla il ministro per la Protezione civile, Nello Musumeci, che insiste sulla necessità di puntare sulla strada della prevenzione e della pianificazione.
Ministro, nonostante le ultime abbondanti piogge che hanno riempito alcuni invasi che da anni erano a secco, la siccità spaventa ancora la Sardegna, soprattutto in alcune aree. La Regione qualche tempo fa ha chiesto lo stato di emergenza nazionale. Come si procede in questi casi?
«Mi lasci dire intanto che la siccità resta la più insidiosa tra le crisi naturali con cui l’Italia dovrà fare i conti nei prossimi anni. Insidiosa perché è come il mal di denti: ti ricordi del dentista solo quando hai il dolore. Voglio dire che la penuria d’acqua è ciclica. E dopo una provvidenziale pioggia abbondante credi di potere rimandare la soluzione del problema. E non ci pensi più. È mancata insomma ovunque la prevenzione strutturale, che non consiste solo nel creare le infrastrutture ma nel sottoporle a costante manutenzione. Il problema non è quindi contingente ma strutturale. E andava affrontato nei decenni passati. Vengo alla sua domanda. La richiesta di stato d’emergenza nazionale avanzata dalla Regione è all’esame dei nostri tecnici. Dopo la loro valutazione, porterò e illustrerò la proposta al Consiglio dei ministri per la dichiarazione. Comporterà una temporanea deroga alle norme vigenti per consentire al presidente l’adozione di alcuni interventi urgenti, anche con risorse statali».
Cosa comporterebbe la nomina della presidente Todde a Commissario straordinario per l’emergenza idrica? È ancora possibile?
«L’ho detto. La Protezione civile gestisce solo l’emergenza e lo fa in collaborazione con il presidente della Regione interessata, in quanto commissario delegato e non straordinario. Del resto, per la fase non emergenziale c’è già una apposita struttura nazionale, guidata da Nicola Dell’Acqua, che lavora d’intesa con tutte le Regioni».
Le associazioni di categoria chiedono l’istituzione di una task force che possa gestire l’emergenza, anche e soprattutto in un’ottica futura. In Sicilia è stato fatto lo scorso anno: con quali risultati? L’esperienza si può ripetere in Sardegna?
«È una decisione che prescinde dalla Protezione civile, non rientra tra le mie competenze. Si individuano due, tre obiettivi e si lavora per raggiungerli. Nel caso della Sicilia, è stata l’acquisizione e installazione di tre dissalatori lungo la costa sud dell’Isola. Si sta lavorando».
A l netto degli ultimi sviluppi sul fronte delle piogge, il sistema idrico in Sardegna resta una sorta di “rete colabrodo” e perde in media il 50% dell’acqua che trasporta. Politica e associazioni chiedono un grande piano pluriennale che comprenda la sistemazione della rete idrica, l’efficientamento del sistema degli invasi e la costruzione di nuove dighe. È la strada giusta?
«Giustissima. È la prevenzione e pianificazione, un metodo che è sempre mancato in Italia. Un Piano del genere richiederebbe almeno dieci anni di lavoro. Ma l’importante è cominciare. Assieme alle infrastrutture servirebbe una campagna di sensibilizzazione per una approccio più responsabile con il consumo dell’acqua, potabile e irrigua, ed una semplificazione della governance. Troppe competenze polverizzate».
Secondo gli esperti della Commissione europea “man mano che il clima si riscalda, le precipitazioni cambiano, l’evaporazione aumenta e l’innalzamento delle temperature dell’acqua provocherà un calo della qualità dell’acqua stessa, moltiplicando i costi di depurazione”. Crede che sul lungo periodo le nuove dighe possano essere una soluzione pratica?
«L’acqua non si fabbrica ma arriva con le piogge. Se però quando piove ne accumuliamo solo il dieci per cento, ci troveremo sempre in crisi in assenza di piogge. La diga, quindi, come serbatoio artificiale, è sempre necessaria, ma va tenuta in manutenzione. In Sardegna, come nella mia Sicilia, si è dovuto attendere decenni per vedere realizzata una diga, mentre le altre non sono state mai collaudate. Altrettanto importante è la cura del territorio, dal punto di vista idrico e idrogeologico. E non sempre è un problema di risorse finanziarie. Il nostro governo ha appena messo a disposizione della Regione Sardegna un finanziamento di oltre 60 milioni di euro per la lotta al dissesto del suolo, per 21 interventi cofinanziati: a carico di Cagliari solo due milioni e 300 mila. E poi ci sono i fondi Fsc e quelli del Pnrr, che come Protezione civile abbiamo anticipato agli inizi del ’23 per essere certificati entro l’estate del prossimo anno».
In Sicilia si è parlato dei dissalatori come soluzione parziale all’emergenza. Cosa ne pensa? Crede che possano essere una risposta concreta perlomeno per la produzione di acqua potabile?
«È una soluzione integrativa sempre più necessaria. Dobbiamo abituarci anche in Italia a fare buon uso di depuratori e dissalatori, ai quali abbiamo guardato finora con diffidenza. Trattare l’acqua dolce e di mare aiuta ad alleggerire un sistema idrico locale insufficiente. Specie se continuiamo a commettere l’errore di irrigare le campagne con l’acqua potabile. È un lusso che non possiamo più permetterci».