Covid, Sergio Babudieri: «Ricordo quel giorno di 5 anni fa, un simile inferno era impensabile»
Il responsabile dell'unità complesso di Malattie Infettive dell'Aou di Sassari racconta Codogno e il paziente 0
Sono passati cinque anni esatti da quel 20 febbraio 2020, quando il tampone su Mattia Maestri, giovane ricoverato all’ospedale di Codogno, rivelò all’Italia intera che il virus era già qui. Da allora, il tempo si è contratto, un lungo respiro trattenuto tra lockdown, ospedali al collasso e sirene di ambulanze che squarciavano il silenzio delle città. Ventisette milioni di contagi, 197mila morti ufficiali (ma forse 246mila, se si conta l’eccesso di mortalità). E poi vaccini, green pass, proteste. Dolore. Solitudine. E oggi? Oggi l’Italia e la Sardegna sono ancora sospese tra chi vorrebbe processare il passato e chi preferisce seppellirlo sotto il tappeto dell’oblio.
All’inizio la Sardegna sperava di rimanere al riparo, un’isola separata anche dal contagio. Un’illusione durata poco. Gli ospedali si sono riempiti, il sistema sanitario è andato in affanno. Il professor Sergio Babudieri, responsabile dell’unità complessa di Malattie Infettive dell’Aou di Sassari, quel giorno ce l’ha marchiato a fuoco nella memoria: «Mi ricordo benissimo quel 20 febbraio e la notizia del paziente zero. Seguivamo attentamente l’evolversi della pandemia in Cina, e tutti sapevamo che prima o poi sarebbe arrivata anche qui. Ma la forza e l’impatto erano inimmaginabili». Questo è stato il primo insegnamento per la comunità medico scientifica: ragionare sempre in termini di sanità globale, e non nell’ottica del piccolo orticello di ciascuno. Bastano 10 ore di aereo per muoversi da una parte all’altra del mondo, e traslocare i virus a latitudini lontane. «Nel reparto di Malattie Infettive – prosegue Babudieri – ci eravamo preparati all’emergenza. Facevamo da giorni le esercitazioni, nella palazzina era stato sgomberato il reparto di Oncologia, per far spazio a letti per eventuali ricoveri di persone infette. Poi il 7 marzo la notizia del primo contagio a Oristano: il Covid era arrivato, c’era anche il primo paziente sardo. Da quel momento fu un crescendo, con la prima grossa ondata che si abbatté sugli ospedali da ottobre in poi. Nell’Aou di Sassari ci fu il cluster in Cardiologia che ruppe gli argini, e fece tracimare il virus in tutti i reparti. Mi ricordo che i numeri facevano paura: circa 320 ricoverati erano affetti da covid, parliamo del 75 per cento dei pazienti». Il virus poi cammina veloce, e investe le case di riposo, infierendo sui soggetti più fragili, gli anziani, che muoiono come mosche. «Per quasi due anni abbiamo operato in condizioni estreme, spingendoci oltre il limite. Non c’erano giorni liberi, lavoravo sabato, domenica e festivi, con una media di oltre 10 ore. Basti pensare che ho accumulato circa 2000 ore extra. Ma non si poteva fare altrimenti. Si andava la mattina al reparto, ci si fermava per pranzo, e la notte si ritornava a casa per dormire. E poi di nuovo da capo. È stata un’esperienza mai vissuta. Ci siamo fatti forza l’uno con l’altro, uno spirito di squadra mai provato prima. Combattevamo con un nemico sconosciuto, del virus si sapeva pochissimo, non c’erano linee guida, l’ordine di scuderia era: “fate, punto!”. Si navigava a vista e il personale era sull’orlo del burn-out, in piena crisi di nervi. Eravamo consapevoli di poter morire, ma non avevamo nemmeno il tempo per avere paura». Ma il covid ha lasciato dei segni indelebili anche fuori dagli ospedali, nell’anima di in un’intera generazione. «La gente ha vissuto quegli anni come una punizione. Soprattutto il lock-down è stata una sorta di prigionia collettiva imposta. La reazione è stata violenta: i no vax hanno utilizzato i social per negare il problema e prendersela con chi cercava di risolverlo. Non siamo stati capaci di arginare questa disinformazione e tuttora ne portiamo i segni. In troppi continuano a essere diffidenti nei confronti dei vaccini, che invece ci proteggono dalle influenze e dal covid stesso». Che cinque anni dopo, è ancora qui. Nei numeri, nei ricordi, nelle cicatrici. Più invisibile, ma presente. E forse il vero problema è proprio questo: l’Italia vorrebbe solo voltare pagina, e non ha il coraggio di guardare in faccia il fantasma che ancora la abita.