La Nuova Sardegna

Economia
Trasporti e logistica

Il caso Sardegna: il gap insulare ci costa ogni anno 300 milioni

Il caso Sardegna: il gap insulare ci costa ogni anno 300 milioni

Manca un sistema efficiente che garantisca i collegamenti: potenziare le autostrade del mare e del cielo è l’unica soluzione

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In questo campo c’è poco da scegliere. L’essere un’isola comporta per la Sardegna avere necessità di trasporto diverse da quelle delle altre regioni. Il mare e i cieli sono la nostra porta verso il mondo, prima tra le condizioni da rispettare non solo per la crescita economica ma anche per la convivenza civile. I collegamenti con la Penisola e il mondo, sono espressi dalla geografia. E declinati lungo le rotte storicamente tracciate. Sui porti, con i tre scali di Porto Torres, Olbia-GolfoAranci e Cagliari (Arbatax nonostante i tentativi rimane uno scalo residuale con numeri che indicano al massimo qualche centinaio di arrivi al giorno in estate), sulle rotte aeree con gli aeroporti conseguenti di Alghero Olbia e Cagliari.

Le nostre autostrade Potenziare queste vere e proprie autostrade immateriali (per i collegamenti interni girate pagina e troverete un approfondimento sul tema) è una condizione imprescindibile per connettere la Sardegna al mondo e liberarla da quello che è un isolamento reale oggettivo e non benefico. Solo pochi nostalgici che sognano una Sardegna come Eden autonomo e indipendente, possono leggere nelle naturali connessioni da potenziare un ostacolo e non una necessità. Queste impalpabili autostrade, dopo decenni di confronto e scelte non sempre vincenti, non sono ancora a pieno regime. Vi sono due elementi che le rallentano, se non le ostacolano, che si colgono bene se si confrontano altre realtà isolane dove i trasporti sono una necessità. Il caso sardo, purtroppo è unico nel Mediterraneo, combinando ricchezza prodotta, localizzazione, estensione e popolazione incomparabili.

La geografia  Non siamo come la Sicilia, estesa quanto la Sardegna, ma con una popolazione tre volte superiore e una vicinanza alla terraferma che dovrebbe superare anche plasticamente in un futuro prossimo lo stesso concetto di isola. I confronti Non siamo come la Corsica, tre volte più piccola e con meno di 400mila persone, e con un sistema politico e istituzionale diverso. Non viviamo l’esperienza di Cipro, grande poco più di un terzo, con una popolazione oltre il milione, ma divisa in due dalla “linea verde” che segna il confine di parte dell’isola dalla cosiddetta Repubblica Turca di Cipro, vicinissima alla Turchia e distante dalla parte greca. Non siamo come le Baleari, grandi un quinto della Sardegna, una popolazione di circa 1 milione di residenti ma con una ricchezza prodotta simile alla nostra. Siamo un unicum, per dimensione, (24mila chilometri quadrati), popolazione (1,6 milioni) e ricchezza prodotta (pil procapite sui 24mila euro) e nominale (sui 37 miliardi). Con queste premesse si leggono i due corni del problema per affrontare, prima ancora che risolvere il tema trasporti: la quantità di persone interessate allo scambio e la ricchezza del territorio che ha bisogno dello scambio. Avere anche uno solo di questi elementi facilita la soluzione, ma se si è come qui, poveri e pochi, tutto si complica. Ecco perché dobbiamo contare su “aiuti” esterni, fondi nazionali o comunitari, che però per trasformarsi in mezzi di collegamento si devono accompagnare a leggi, regolamenti e impegni. Illudersi che i trasporti ci siano dovuti solo perché siamo isolati significa avere una idea delle relazioni politiche e istituzionali a dir poco romantica.

L’insularità e la Carta Nell'inserire un comma aggiuntivo dopo il quinto comma dell'articolo 119 della Carta, la legge costituzionale prevede che “la Repubblica riconosce le peculiarità delle Isole e promuove le misure necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall'insularità”, valutati peraltro circa 300 milioni di euro l’anno da centri di ricerca. Un principio nobile e doveroso, presente anche per l’indefesso impegno da molti anni nell’isola di Comitati e forze politiche che hanno fatto di questo tema il centro delle loro proposte. Ma un punto che va riempito di contenuti, normativi, e ancora una volta finanziari. E qui il cammino si fa arduo. La storia di questi decenni di incroci tra norme europee, regole nazionali, fondi da entrambe le parti, disegna una storia ricca di “montagne russe”, come disse in un convegno il docente universitario e ancora per poche settimane presidente dell’autorità portuale della Sardegna Massimo Deiana. Il rispetto delle regole di mercato si è sempre scontrato con la necessità di assicurare un servizio efficiente a chi è svantaggiato. Il mercato, però, su costi e imprese, è sempre andato più veloce di chi cercava di regolarlo. Forse anche per questo motivo il dogma del libero mercato, che deve avere la precedenza nel sistema trasportistico, anche nelle aree naturalmente penalizzate, ha avuto la prevalenza sul capitolo legato al servizio. Non a caso la Regione nel recente passato ha voluto legare gli incentivi della continuità territoriale aerea al mercato turistico. Non è andata benissimo. La recente cronaca vede rinnovi annuali dei bandi per la continuità aerea, mentre per quella marittima la scadenza dei contratti al 2026 ha imposto al ministero delle infrastrutture l’attivazione delle procedure per i nuovi bandi per persone e merci.

Le soluzioni Il rincorrersi di soluzioni, tutte definite finali, tutte poi smentite dai fatti, fa perdere di vista quello che è l’unico valore dei progetti di continuità da proteggere: la continuità nel tempo. Come ha ribadito più volte lo stesso Deiana il principale valore delle politiche di continuità territoriale è legato alla loro stabilità e durata: solo così si può fare una politica tariffaria coerente e si possono convincere i soggetti privati, che prezzano nei loro contratti e investimenti anche e soprattutto la stabilità. E così se sulla continuità le regole ci sono, quelle europee, restano da trovare i soldi. Quanti ne servirebbero? Studi credibili fissano l’asticella a diverse decine di milioni di euro, “tutto compreso”, per servizi diffusi, credibili e organici tutto l’anno. La Sardegna non li ha. Lo Stato neppure. E così torniamo all’inizio della giostra, senza aver risposto alla domande iniziale: chi paga? 

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