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Roger passa e chiude, ultimo dritto e la fede Federer è già una religione

Roberto Petretto

	Roger Federer, 41 anni, nato in Svizzera a Basilea, saluta il pubblico della O2 Arena di Londra dove ieri ha chiuso una carriera strepitosa
Roger Federer, 41 anni, nato in Svizzera a Basilea, saluta il pubblico della O2 Arena di Londra dove ieri ha chiuso una carriera strepitosa

Ieri ultima partita del campionissimo. In 24 anni di successi è diventato un mito

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Sassari A ncora uno, per favore. Ancora un rovescio a una mano a squarciare il campo, ancora un dritto a dipingere una traiettoria impossibile. Ancora una volée definitiva come una sentenza, una smorzata che si spegne, letale, poco oltre la rete. È stata davvero l’ultima partita ufficiale di Roger Federer? Gli ultimi versi di una raccolta di poesie lunga 24 anni? Dobbiamo rassegnarci: a Londra, nella Laver Cup, con a fianco il rivale di mille battaglie, Rafael Nadal, the swiss maestro ha salutato il pubblico planetario che l’ha ammirato, incitato, adorato. Lo ha fatto con un sorriso, perché questo è sì un addio, struggente persino, ma senza tristezza. Da New York a Parigi, da Melbourne a Londra, passando per i tornei disseminati in tutto il globo (peccato per quel trionfo a Roma mai arrivato), Roger Federer ha dispensato bellezza, eleganza, stile espressi in un tennis puro come un diamante. Tanto parlare per un tennista che si ritira?

Federer è stato molto di più che un semplice tennista, un uomo in maglietta e calzoncini corti che sgambettava su un campo. Lo aveva capito David Foster Wallace quando parlò, in un famoso libro uscito nel 2006, di “Federer come esperienza religiosa”. E la “fede Federer” in questi anni la si è potuta vedere a ogni latitudine, nella forma di un’adesione incondizionata da parte dei suoi tanti adepti, più forte dei campanili, più forte del tifo per gli idoli locali. Federer è stato più di Agassi, più di Sampras, più di McEnroe e Borg che pure, nelle rispettive epoche, sono stati dei giganti. Forse uno dei segreti della diffusione planetaria della “fede Federer” è stato il connubio tra talento e applicazione. Doti innate irrobustite da una spaventosa, continua, duratura voglia di migliorarsi.

Quanti talenti cristallini non hanno raggiunto un decimo dei successi di Re Roger? Quanti si sono persi per strada (uno su tutti: Dimitrov, in gioventù gravato del pesante soprannome di “piccolo Federer”)? Anche quando era il numero uno al mondo, il campione svizzero non ha mai smesso di cercare di migliorarsi: una rotazione in più, un angolo diverso, un anticipo di una frazione di secondo nel portare il colpo. E quando il trono ha cominciato a vacillare, ecco la ricerca di qualcosa in più. Il cambio di racchetta, la fedele Pro Staff, con la scelta di un ovale più grande: il segno ulteriore, l’ennesimo, di quella febbrile ricerca del piccolo incremento per continuare a restare lì in alto, nell’Olimpo.

Federer deve ringraziare (e lo ha fatto, con lo stile di sempre) gli altri “dei” di questo Olimpo. Un po’ Murray, un po’ di più Djokovic, moltissimo Rafa Nadal. Ed è stato bello che l’ultimo hurrah sia stato condiviso proprio col finto mancino di Manacor. Nel campo di lavagna della O2 Arena di Londra, colorato dalle maglie azzurre del Team Europe e da quelle rosse del Resto del Mondo, un pubblico di eletti ha potuto ammirare dal vivo gli ultimi passi di danza di Federer in doppio con Nadal. I “gesti bianchi” di un atleta che, rubando ancora le parole a David Foster Wallace, sono stati il segno di «qualcosa che ha che fare col mistero e la metafisica». Come il mistero metafisico del tempo che passa, più forte di tutto, e che fa invecchiare anche gli “dei”.

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