La Nuova Sardegna

1987. La morte del maresciallo Dettori, il sardo che sapeva troppo su Ustica: forse non fu un suicidio

di Piero Mannironi, 14 settembre 2019
Il Dc9 dell'Itavia ricostruito nell'hangar di Pratica di Mare, Roma
Il Dc9 dell'Itavia ricostruito nell'hangar di Pratica di Mare, Roma

La notte della strage era in servizio al radar di Poggio Ballone. Il caso riaperto nel 2017 sulla spinta della famiglia

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Quella di Ustica non è solo una strage. O meglio, non è soltanto la morte delle 81 persone che, il 27 giugno del 1980, si trovavano a bordo del Dc 9 dell’Itavia Bologna-Palermo, finito in mezzo a un agguato internazionale, pianificato da alcuni Paesi della Nato, per eliminare il dittatore libico Muammar Gheddafi. Ustica è infatti molto di più. È una spietata macchina infernale occulta che, per molti anni, ha umiliato la verità, ha avvelenato la democrazia, nascondendo prove alla magistratura e alle istituzioni repubblicane, intimidito chi sapeva e rubato la vita di chi poteva o voleva parlare. Quasi una malattia, un’infezione maligna che è arrivata fino ai gangli più segreti dello Stato. Ecco perché non ci sono soltanto i morti di Ustica, ma anche coloro che “sono morti di Ustica”.

Per il giudice Rosario Priore sono almeno 13 gli uomini la cui fine misteriosa è riconducibile alla tragedia del Dc 9 Itavia. Magistrato prudente e pragmatico, poco propenso alle suggestioni, Priore ha dedicato un capitolo della sua monumentale sentenza-ordinanza a queste vite spezzate e cancellate dalla memoria. Le ha chiamate le “morti sospette”. Una strage silenziosa compiuta per nascondere la strage del 27 giugno. Una di quelle tredici vittime dimenticate è il maresciallo di seconda classe dell’Aviazione militare Mario Alberto Dettori. Sardo di Pattada, aveva 32 anni nel 1980. Il suo incarico operativo era “assistente controllore di difesa aerea”. Viveva a Grosseto. Una vita serena, la sua. Sposato con la signora Carla Pacifici, aveva tre figli: Barbara, Andrea e Marco. Tutti di lui dicevano che aveva un carattere allegro ed estroverso.

La sorella Antonietta l’ha ricordato così: ‘‘ Era un uomo solare ed equilibrato Un solido equilibrio interiore che gli derivava dall’amore per la sua famiglia, per il suo lavoro e per l’Aeronautica». Per questo, quando il pomeriggio del 31 marzo del 1987 lo trovarono impiccato a un albero, quelli che lo conoscevano bene non credettero che si fosse tolto la vita. La tragica sera del 27 giugno 1980 Alberto Dettori è di turno al radar di Poggio Ballone, vicino a Grosseto. Quindi, vede tutto. Sul suo monitor segue quel punto luminoso lampeggiante con il codice militare identificativo AJ421. È il Dc 9 Itavia, che si avvicinava al cosiddetto “punto Condor”, cioè un buco nero nella copertura radar del traffico civile nel basso Tirreno. Poi sugli schermi vede improvvisamente saettare un nugolo di punti luminosi intorno al Dc9. Per lui quelle piccole luci non hanno segreti: sono jet militari. Così, quando vede la traccia AJ421 spegnersi, capisce che 81 persone stanno precipitando nel mare di Ustica e nella notte della morte.

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Solo dopo molti anni si saprà che quelle tracce che “danzavano” malignamente intorno al Dc 9 Itavia erano F4 Phantom americani, Mirage francesi, Mig-23 libici e, forse, F-104 italiani. La mattina del 28 giugno, Alberto Dettori torna a casa stranamente agitato, nervoso. Carla, la moglie, lo conosce molto bene e capisce subito che è accaduto qualcosa di grave. Lui indossa ancora la divisa quando prendono il caffè in cucina. Carla è preoccupata e chiede se sia successo qualcosa, ma lui si limita a dire: «È successo un casino, qui vanno tutti in galera». Dopo pochi minuti arriva in casa la sorella di Carla Pacifici, Sandra. Hanno appuntamento per andare al mare tutti insieme al mare, a Castiglione della Pescaia. Vede il cognato turbato e cerca di tranquillizzarlo. È in quel momento che lui sibila: «Stanotte siamo stati a un passo dalla guerra! Capite? Dalla guerra!».

Ricorderà qualche anno dopo Sandra Pacifici: «Aveva dei segni sul corpo, qualcuno lo aveva picchiato. La faccia era stravolta e parlava sottovoce, quasi avesse paura che qualcuno potesse sentirlo». Alberto Mario Dettori era un uomo per bene. Un uomo onesto che portava con orgoglio la sua divisa azzurra. Era stato testimone di qualcosa di terribile e ora la sua coscienza si ribellava alla congiura del silenzio che si stava costruendo intorno alla strage del Dc 9 Itavia. Era un qualcosa che lo indignava profondamente, lo corrodeva dentro. Lo faceva soffrire. Due giorni dopo Dettori telefona al capitano dell’Aviazione Mario Ciancarella. Lo aveva conosciuto qualche anno prima a una riunione dei “militari democratici” e nutriva per lui rispetto e ammirazione. Così Ciancarella ricorda quella telefonata: «Mi chiamò a casa un paio di giorni dopo la strage di Ustica: “Comandante, si ricorda di me? Sono Dettori”. Lì per lì il nome non mi diceva niente, poi capii chi era. Era agitatissimo: “Comandante, siamo stati noi a tirarlo giù. Siamo stati noi”. Lo bloccai subito: ma che stai dicendo? E lui: “È una cosa terribile…”. Era sempre più agitato. Allora gli dissi: “Guarda, ti rendi conto che è una cosa enorme, ci vogliono delle prove, dei riferimenti. E lui: ‘‘ Non posso dire nulla qua ci fanno la pelle.

Dice ancora Ciancarella: «Ai primi di agosto Dettori mi telefonò una seconda volta a casa. Ma con un tono completamente diverso. Era freddissimo. Accennò alla faccenda del Mig-23 libico precipitato nella Sila. Poi mi ricordò che gli avevo chiesto riferimenti precisi, prove. Mi disse: “Io le posso dare solo alcuni suggerimenti, che poi lei deve verificare”. Gli chiesi: scusa, ma in base a cosa mi dai questi suggerimenti? E lui: “Dopo questa puttanata del Mig caduto nella Sila… Si guardi gli orari degli atterraggi, i missili a guida radar e a testata inerte”. Gli risposi che lo avrei fatto. Ci scambiammo gli auguri estivi. E da allora non lo sentii più. Oggi la sua morte pesa sulla mia vita come un macigno».

Mario Ciancarella era un brillante capitano che pilotava i giganteschi Hercules C-130. Insieme ad alcuni ufficiali e sottufficiali, a 28 anni, aveva fondato il Movimento democratico dei militari. Nel novembre del 1979 aveva sottoscritto un appello pubblico al Quirinale per rispondere alla petizione che oltre 300 generali avevano inviato al presidente della Repubblica Sandro Pertini, contro la legge 382. Una norma che estendeva ai militari i diritti costituzionali fondamentali di espressione e rappresentanza. Per i generali, quella legge emanata dal Parlamento “avrebbe reso ingovernabile il mondo militare e non più esercitabile l’esercizio del comando fondato sulla disciplina”. La prima firma nell’appello a Pertini era di Mario Ciancarella, seguita da quelle di oltre 800 sottufficiali. E il presidente-partigiano, sorprendendo tutti, convocò al Quirinale il capitano del Movimento democratico dei militari, che si presentò con il suo amico tenente colonnello Alessandro Marcucci e con il sergente maggiore Lino Totaro. Fu incontro cordiale, nel quale cercò di insinuarsi un uomo dei servizi segreti che diceva di far parte del cerimoniale. Pertini lo cacciò malamente dalla stanza.

Ciancarella e Marcucci non lo sapevano, ma quel giorno era cominciato il loro lungo calvario. Infatti, due mesi dopo la telefonata di Dettori, fu aperta nei loro confronti una procedura di radiazione per insubordinazione e indegnità a indossare la divisa e i gradi. Erano nel mirino delle alte gerarchie militari perché considerati eversivi. E poi, dopo le telefonate di Dettori, avevano cominciato a indagare discretamente su Ustica… Marcucci morirà a Campo Cecina il 2 febbraio 1992, in una missione di vigilanza antincendio, a bordo di un Piper della Transavio, al servizio della Regione Toscana. Qualche anno fa la procura di Lucca ha riaperto il caso e indaga per omicidio. Marcucci aveva riferito all’amico Ciancarella di avere trovato un pilota e un controllore di volo dell’Aviazione militare disposti a parlare con il magistrato, per dire che il Mig-23 trovato sulla Sila era partito dalla base italiana di Pratica di Mare. Ma poi i due decisero di tacere.

Ciancarella, il 29 settembre del 1980, sarà arrestato e chiuso nel carcere militare romano di Forte Boccea. La prima notte una squadraccia di uomini incappucciati entrò nella sua cella e lo violentò. Sarà prosciolto da tutte le accuse. Nell’ottobre di tre anni dopo sarà però radiato dalle forze armate con un decreto sottoscritto dal presidente Pertini. Il tribunale di Firenze ha accertato nel 2016 che la firma del presidente era falsa. Lasciata l’arma azzurra, ha aperto una libreria. Ma non ha mai smesso di combattere sul fronte della verità, aiutato dall’associazione antimafia “Rita Atria”, battendosi per riaprire i casi Dettori e Marcucci.

Oggi è importante raccogliere quei frammenti di ricordi che diventano testimonianza di una storia che aspetta ancora di essere definita. E per costruire il mosaico della morte di Dettori assumono rilevanza altri episodi. Come quello riferito dalla figlia Barbara: «Nel 1981 era morto, ucciso a 32 anni da un infarto, un collega di mio padre, il capitano Maurizio Gari. Quando babbo tornò dal suo funerale era distrutto. Mia madre cercò di consolarlo, ma lui le rispose dicendole che era toccato prima a Maurizio e che poi sarebbe stato probabilmente il suo turno». Gari era insieme a Dettori nella sala di controllo di Poggio Ballone la notte di Ustica. Di più: ne era il responsabile. Insomma, le testimonianze di Ciancarella e dei familiari di Alberto Dettori raccontano un uomo tormentato che cerca disperatamente di trovare qualcuno che lo aiuti a far emergere dalla palude del silenzio e dei depistaggi, la verità sulla strage.

Nell’aprile del 1986 il maresciallo di Pattada viene mandato in missione per sei mesi alla base di Roquebrune-Cap Martin, in Costa Azzura. La sua sede operativa è Monte Agel, dove si trova il sito radar. E qui accade qualcosa che lo cambia profondamente. Improvvisamente accusa una serie di malesseri: fortissime cefalee, vertigini e mal di denti. Poi, comincia ad avere comportamenti strani. Sembra impaurito. La moglie Carla Pacifici il 26 novembre del 1990 riferirà al giudice Priore una telefonata che la inquietò molto: «Era strano quella sera. Mi ha chiesto se gli volevo bene e poi mi ha riferito che vedeva sui muri per strada la scritta “il silenzio è d’oro e uccide”». L’indomani Dettori torna a casa. Alla stazione la moglie trova un uomo cambiato, spaventato. «Era come se gli avessero fatto il lavaggio del cervello» dirà Carla Pacifici a Priore. Alberto ha paura di essere sorvegliato, spiato: arriva al punto di smontare i telefoni alla ricerca di microspie.

Pochi mesi prima di morire, Dettori riceve la visita di un misterioso personaggio: Roland. «Era un sottufficiale francese, un collega di mio marito - riferirà nel 1992 la Pacifici al giudice -. Si fermò a Grosseto in casa nostra per quattro giorni. Era un uomo molto robusto, alto, con capelli scuri e senza baffi. Era giunto con una Citroën Cx Pallas di colore avana». A rendere rilevante e sospetta la visita di Roland è una lettera anonima arrivata dopo qualche mese al giornalista del Corriere della Sera Andrea Purgatori. «Sono un amico di Dettori – è scritto a stampatello –, sono passati troppi anni da quel maledetto giorno. Se vuoi sapere la verità su Ustica vai a Bruxelles e indaga bene lì ai centri radar. Il missile sicuramente è quello di un sommergibile francese. Sono loro i colpevoli, la scatola nera l’hanno loro maledetti. Dettori fu impiccato da Roland e da un altro francese, fanno parte dei servizi segreti francesi». L’ennesima intossicazione in questa storia infinita di depistaggi e manipolazioni? Forse. Sta di fatto che il misterioso Roland non è un fantasma. Per il semplice motivo che è stato ospite dei Dettori a Grosseto, come ha testimoniato la moglie di Alberto.

Quando nel 2000 il presidente del Consiglio Giuliano Amato inviò una lettera al presidente francese Chirac per sollecitare una risposta alle rogatorie della magistratura italiana su Ustica, scrisse in proposito: «… le chiedo le più esaurienti notizie sul militare francese di nome Roland, probabilmente un sottufficiale, anch’egli in servizio nella stessa sede insieme al militare italiano al quale, nell’estate del 1986, rese visita a Grosseto, raccogliendone le confidenze». Una domanda alla quale la Francia non ha mai risposto con chiarezza.

La mattina del 31 marzo 1987 Alberto Mario Dettori esce di casa alle e otto e un quarto per accompagnare a scuola il figlio Marco e per andare a prendere l’acqua in un fontanile in località “Poggio alla Mozza”. Nessuno in casa nota nulla di strano, Alberto è tranquillo. Come sempre. Ma le ore passano e lui non torna. Carla si preoccupa e chiede a un amico di accompagnarla per cercarlo. Ha un brutto presentimento. Alle 17, in località Sassi Bianchi, a poca distanza dal fiume Ombrone, trovano il furgone di Alberto e, a pochi metri, il suo corpo che penzola dal ramo di un albero. Nessuno si chiede come ha fatto ad arrampicarsi per tre metri, oppure se aveva graffi sulle mani. Nessuno ritiene di fare l’autopsia o una perizia tossicologica. O se sotto le sue unghie ci sia il Dna di qualcuno. Il suo caso viene frettolosamente archiviato: suicidio.

Sulla spinta della famiglia, però, il caso è stato riaperto nel 2017. La fine di questa brutta storia legata ad Ustica è quindi ancora da scrivere. Qualche anno fa, parlando della morte di Alberto Dettori, Mario Ciancarella citò una eloquente frase dello scrittore francese René Bazin: ‘‘ Nella vita abbiamo solo due o tre occasioni per dimostrarci eroi, ma a ogni istante abbiamo quella di non essere vili». Ebbene, se Mario Alberto Dettori ha indagato sulla strage del Dc 9 Itavia è stato un coraggioso, se per questo è morto, allora è un eroe.

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