Antonio Marras: «I miei stracci per comunicare fratellanza al mondo»
Milano la prima collezione dell’era Calzedonia
Cosa succederebbe se un “visionario poliedrico” – circondato da una piccola folla di folli esploratori – si inoltrasse nel cuore primitivo e ancestrale della Sardegna, alla ricerca di un antico Teatro dell’Opera ora sommerso dalle acque ferme e misteriose di un lago? La risposta, traslata, ci arriva – attraverso una sfilata-narrazione – da Antonio Marras, ieri protagonista assoluto del debutto della Fashion Week SS23 che rilancia Milano riportandola finalmente ai fasti preCovid. L’evento, come sempre e più di sempre, ha tenuto col fiato sospeso e gli occhi sognanti il pubblico, ipnotizzato da colori, tessuti e forme miscelati alchemicamente dall’anima e dal guizzo geniale di Marras. Animata dal racconto “Il Teatro Dell’Opera” di Patrizia Sardo Marras, la collezione ha messo in scena i favolosi esploratori seguaci di Ithocor Arcane Diez che, dal mare si sono mossi fino al centro dell’isola, avvolti in ammalianti abiti dai colori sabbia, tortora, camouflage, con stampe a fiori e quadri; l’incontro con gli indigeni ha mostrato abiti ornati da rose variopinte, pizzi madreperlati, damaschi bianco latte incastonati da retaggi del mitico Teatro dell’opera. Maxi giacche raccontano paesaggi bucolici; broccati, ricami, intarsi raccontano passati gloriosi del tempio della lirica, ora sott’acqua. La collezione donna\uomo – la prima dopo l’acquisizione dell'80 per cento dell'azienda da parte dell'ad di Calzedonia, Sandro Veronesi – ancora più articolata, completa e ricca di sempre, si è chiusa con i sette capi speciali dedicati a Maria Callas realizzati dalla sartoria del Piccolo Teatro.
Antonio Marras cosa va cercando con il suo alter ego esploratore?
«È la ricerca delle radici, dell’attaccamento alla mia Terra, dell’amore per l’arte: tutte quelle contaminazioni che ho sempre cercato».
Ha voluto omaggiare la Callas con abiti cuciti nella sartoria del Piccolo Teatro?
«Assolutamente. Per me la Callas è il simbolo dell’Opera. I sette abiti sono pezzi unici fatti per celebrare questo percorso. C’è la sua anima di sempre e si respira anche un nuovo inizio».
Cosa l’ha convinta a fare questo passo?
«Soprattutto il concetto condiviso della territorialità, dell’attaccamento alle origini. Ho sentito il desiderio di ripercorrere quella che è stata la mia storia rimodellandola sull’oggi».
Lei non si è mai fermato, neanche con Covid e guerra; si sente comunque un po’ “Fenice”?
«Forse…abbiamo attraversato periodi di grande fulgore e anche difficoltà che ci hanno veramente bastonato, come i due anni di pandemia e la guerra. Siamo sempre stati autonomi e piccoli, con la precisa volontà di non legarci. Questa fusione è nata dopo aver incontrato una quarantina di gruppi potenziali partner che abbiamo rifiutato».
Questa volta cosa ha fatto scattare il sì?
«Una persona coma il signor Veronesi che è un visionario e ha, come me, un forte attaccamento alle tradizioni, alla terra e al territorio».
Come vede, lei così inclusivo e amante delle commistioni, questo presente così divisivo?
«Viviamo in un catino che è il Mediterraneo. Le sue popolazioni si guardano. Vivendo ad Alghero, un porto di mare, sono inclusivo sin dal Dna».
I russi sono stati nostri fratelli fino a ieri e oggi diventano nemici?
«Siamo comunque fratelli, i russi non sono Putin, come i tedeschi non sono Hiter. Io faccio stracci e con questo comunico comunanza».