Alessandro Serra: «Il potere magico della scena è il senso della mia Tempesta»
«Dopo Macbettu ecco ancora Shakespeare»
Il teatro immaginifico di Alessandro Serra, ancestrale e ricchissimo di senso, intensamente essenziale (come tutte le grandi cose) ritorna in Sardegna lunedì 9 alle 21 al Teatro Comunale di Sassari e da mercoledì 11 a domenica 15 gennaio al Teatro Massimo di Cagliari. Serra, dopo il premio Ubu e il successo internazionale del suo Macbettu in sardo, nuovamente percorre i sentieri vertiginosi dell’Everest del teatro: William Shakespeare. Questa volta si misura con la regia de “La Tempesta”, ultima opera del Bardo. Lo spettacolo, dopo la prima a Moncalieri, è stato in tournée a Reggio Emilia, all’Argentina di Roma, è stato portato in scena in Lituani, poi ad Avignone, sul prestigioso palco dell’Opéra Grand Avignon, e infine in Polonia, a Danzica. Per arrivare tra le quinte del tempio del teatro moderno italiano: il Piccolo Teatro Strehler di Milano a novembre.
Se in Macbeth la tragedia si svolge in una Scozia nebbiosa e sanguinaria e la Tempesta in una immaginifica isola mediterranea al centro delle due trame c’è sempre il racconto del potere?
«In realtà avevo intenzione di lavorare a una trilogia del potere, dopo Macbettu, Riccardo III e Re Lear – spiega il regista –. Per tutta una serie di motivi questo progetto non è andato in porto. Poi il lockdown, i teatri chiusi e tutti noi ridotti al silenzio. In quei giorni di isolamento la lettura della Tempesta mi ha profondamente commosso: un omaggio al teatro coi mezzi del teatro. Il suo potere, la sua forza magica e spirituale. Durante le prime settimane di prove è poi esplosa questa orrenda guerra fratricida e tutta la forza politica della Tempesta è deflagrata nei nostri corpi e nelle nostre anime. Nel riscrivere in scena l’opera tutto di colpo è diventato attuale».
L’attualità che irrompe. Un testo che da atemporale diviene profetico, una chiave per leggere l’oggi?
«Sì, infatti a quel punto della scrittura di scena la sorgente del lavoro è divenuta la compassione e il perdono, la luce oltre le tenebre».
La favola il soprannaturale, l’umano e la natura, nell’opera di Shakespeare visti da Alessandro Serra?
«La natura presente nell’opera è quella relativa agli elementi: il fuoco con l’incendio provocato da Ariele che porta al naufragio, poi naturalmente l’acqua, la terra e l’aria. Ma la natura che si sprigiona in scena è quasi un’ipernatura (un mondo parallelo) creata dagli interpreti. Prospero dice una frase emblematica: questi attori erano tutti spiriti. Non sono dunque semplici attori che interpretano il sovrannaturale ma è il sovrannaturale che si manifesta sotto forma di attori. Nel monologo finale Prospero chiede, rivolgendosi direttamente al pubblico, di essere liberato e di riappropriarsi della sua natura umana. Ancora il teatro nella sua essenza: una magia che ha il potere di accedere a dimensioni metafisiche. Con semplici elementi, pochi oggetti, quattro assi calpestati da una compagnia di comici vestiti con costumi rattoppati».
Una potenza immaginifica che arriva con tutta la sua forza ancora oggi?
«Shakespeare fa molta paura al mondo moderno poiché ci pone davanti uno specchio. Il che per certi aspetti è molto inquietante perché allontana dalla semplificazione manichea del bianco e nero, del buono e del cattivo, ci mostra la nostra ambiguità. Shakespeare è iper-contemporaneo, strano e pericoloso, mette in dubbio il racconto univoco, superficiale che ogni giorno ci viene propinato».
Tutto questo sempre attraverso il semplice, sofisticato e antichissimo gioco del teatro?
«Che è sempre risorto, dato per ucciso dal cinema prima e dalla tv e dal web dopo, ha sempre ritrovato la sua rinascita, ogni volta, riappropriandosi della sua essenza. Cito dei dati, non per magnificare il nostro lavoro, ma per testimoniare il segnale positivo: abbiamo presentato La Tempesta al teatro Argentina di Roma per tre settimane: un trionfo di pubblico, così a Bologna con molte serate sold out, fino ad Avignone, dove lo spettacolo si è sempre chiuso con un’ovazione. C’erano tantissimi ragazzi di 20/25 anni, un segno evidente della voglia di teatro. Un teatro che non si vergogna di essere teatro: semplice e diretto, senza sotterfugi o grandi effetti digitali».
Da Cartagine il veliero dei protagonisti naufraga su un’isola. E, in fondo, su quella rotta l’isola che si incontra è la Sardegna un luogo di profonda ispirazione del suo lavoro?
«Avevo pensato di iniziare dalla Sardegna, con una residenza creativa in una qualche piccola isola come l’Asinara. Ma come sai, tanto per restare in tema, diciamo che l’esperienza teatrale con la mia terra è naufragata. Ma ovunque mi trovi in giro per il mondo posso sempre affondare le mie radici e riemergere nel cuore della Barbagia che sempre sarà la “mia” terra. I sardi lontani dalla Sardegna sono affetti da una congenita malattia dell’anima: l’isolitudine».