La Nuova Sardegna

L'intervista

Enrico Lo Verso: «Soffiai il posto a Banderas: fu la mia svolta. Il cinema di oggi? Più tecnica che cuore»

di Alessandro Pirina
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L’attore siciliano al settimo anno dello spettacolo “Uno nessuno centomila”: «Siamo a 600 repliche ma ogni sera mi diverto come la prima

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È il volto simbolo del riscatto del cinema italiano che nei primi anni Novanta ritrovò l’impegno perduto nel decennio precedente. Ma nel ricco curriculum di Enrico Lo Verso non c’è solo il grande schermo. Ci sono anche Centovetrine e Ballando con le stelle. E poi il teatro, l’amato teatro. In particolare uno spettacolo, “Uno nessuno centomila”, diretto da Alessandra Pizzi, che dopo 7 anni di repliche e pienoni ovunque - anche nell’isola, da Olbia a Sassari - l’11 e il 12 novembre arriva in Vaticano al Piccolo teatro San Paolo.

Enrico, numero di repliche?

«Non lo so con certezza, forse seicento».

Cosa è per lei questo spettacolo?

«Una sorpresa, non pensavo sarei mai riuscito a divertirmi con un solo spettacolo. Invece, ogni volta che sono in scena succede qualcosa di nuovo che mi dà quella eccitazione che danno solo le cose che ti piacciono».

Chi è Vitangelo Moscarda?

«Ogni sera le persone che vengono a teatro si rendono conto che fa parte di ognuno di noi. Me lo hanno detto anche i bambini venuti con le scuole. Questa è una cosa straordinaria. Non tutti lo capiscono, solo lo spettatore teatrale – come chi legge libri, va al cinema o visita i musei – ha gli strumenti per acquisire quella consapevolezza e diventare Vitangelo».

Il suo primo incontro con Pirandello?

«A scuola, l’insegnante di italiano ci portava ai convegni e io scappavo. Ero appassionato di Sciascia, leggevo tutto continuamente. Pirandello lo vedevo più scolastico. L’ho riscoperto in età adulta. Quando Alessandra Pizzi mi ha parlato di fare “Uno nessuno centomila” ho pensato: ci vogliono due mesi, va provato e riprovato. Invece – mi vergogno quasi a dirlo – abbiamo preparato lo spettacolo in 4 giorni. Mi è come piovuto addosso, io ho il modo di ragionare di Vitangelo. Girare e rigirare sullo stesso pensiero è una cosa siciliana, molto pirandelliana».

Quando scatta in lei la passione per la recitazione?

«A 8 anni. La domenica mattina andavo sempre a giocare al Teatro greco di Siracusa con mia madre e mio fratello. Una volta andammo di pomeriggio e nel parco giocavano in maniera diversa: facevamo l’Edipo Re. Questo gioco mi piaceva, mi appassionava. Così presi il libretto dell’Edipo e passavo le giornate a declamare versi senza capirne il significato».

Primo film al cinema con Antonello Grimaldi.

«Era il mio primo film, forse l’opera seconda di Antonello. Ma era anche la prima o seconda di Procacci, Rubini, Buy, Mazzantini, Donadoni. E sa come si intitolava? “Nessuno ci può fermare”. Profetico: quasi tutti abbiamo continuato a lavorare».

Poi è il turno di Squitieri.

«Mi aveva preso per un giorno. Girai e la sera mi fece: “domani torna e fai un altro personaggio”. Alla fine del secondo giorno mi disse: “sei bravo, lavoreremo insieme”. E io, che in quel film facevo l’arabo: “finché dura il filone libanese”. E lui: “quello siciliano non finirà mai”. Con Pasquale ho fatto altri due film».

“Hudson Hawk”. Come fu girare con Bruce Willis?

«Lo vidi solo al Grand hotel di Rimini. In realtà, in quel film non capivo neanche cosa stessi facendo. Mi avevano preso per un ruolo e mi ritrovai a fare una comparsata. Ero arrabbiatissimo. Ma forse questo mi aiutò nel provino per Amelio».

In che senso?

«Venni a sapere del casting durante quel set. Mi chiamò il mio agente e mi disse: per “Il ladro di bambini” cercano un meridionale che faccia il carabiniere ma il protagonista sarà Antonio Banderas. Andai al provino ancora più alterato per quello che stavo vivendo sul set. E fui così convincente che Amelio mi prese».

Al posto di Banderas.

«Feci un provino energico».

Dopo Il ladro di bambini arrivano Lamerica e Così ridevano di Amelio, Farinelli in Francia: come visse la popolarità?

«Non me ne sono neanche accorto. Era da bambino che volevo fare l’attore e dunque tutto quello che è venuto dopo – interviste, Venezia, Cannes, Golden globe, nomination all’Oscar – mi sembrava normale. Non riuscivo a separare i sogni da bambino da quello che stavo vivendo. Quando ero piccolo avevo estrapolato dalla antologia del ginnasio una frase di Goethe: essere se stessi contro ogni violenza. Io volevo già fare l’attore e dicevo: se riesco devo rimanere così come sono. Mi studiavo già da ragazzino per evitare di essere modificato anche dalla violenza del successo».

Ridley Scott la vuole in “Hannibal”.

«Avrei già dovuto fare un film con lui, ma la produzione voleva un attore americano. Quando venne in Italia per “Hannibal” mi chiamarono e mi mandarono il testo per il provino. Mi presentai senza neanche averlo letto. “Lo devo preparare?”, gli chiesi. Ridley: “assolutamente no”».

Un no di cui si è pentito?

«Rispondo con una citazione. Ero a Montecarlo con Alberto Sironi, il primo regista di Montalbano, e si parlava di film fatti. Lui mi disse: “per capire chi hai davanti nel curriculum dovrebbero esserci i no detti. Spesso per i ruoli si è fortunati, i no ti definiscono”. Io ne ho detti tanti e mi hanno penalizzato. Poi penso a quella frase e mi rassereno».

Dal cinema impegnato a Centovetrine, alle soap opera di solito snobbate dagli attori.

«Anche io avevo la puzza sotto il naso. Non ne volevo sapere. Ma alla fine ho letto il testo e l’ho trovato meraviglioso. È stata una esperienza bellissima, grande preparazione e professionalità. Se non avessi fatto Centovetrine - e Uno nessuno - non avrei potuto fare Michelangelo».

Lei è uno dei simboli della riscossa del cinema anni ’90: come vede le nuove generazioni?

«Il cinema non sta bene ma c’è qualcuno che fa cose buone. Oggi si parla benissimo del film della Cortellesi, io amo “Freaks out” di Manetti, ho fatto un’opera prima, “Desirè” di Mario Vezza, che ha vinto Alice nella città. Questo lavoro si può fare con mestiere o con sincerità. La tecnica non basta, serve il cuore. Io voglio registi bravi tecnicamente, ma che abbiano anche la sintesi, il racconto. Si sente la mancanza dei libri che avevano a casa Leone, Fellini, Visconti. Prima si creava una identità e poi veniva il bisogno di raccontare. Scola, per esempio, nasce scrittore, sceneggiatore e solo dopo fa “Una giornata particolare”».
 

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