La Nuova Sardegna

L’intervista

Umberto Smaila: «Cino Tortorella il primo a credere nei Gatti. Le estati sarde con Paoli, Villaggio e Lauda»

di Alessandro Pirina
Umberto Smaila: «Cino Tortorella il primo a credere nei Gatti. Le estati sarde con Paoli, Villaggio e Lauda»

L’attore e showman racconta la sua carriera e il grande amore per l’isola: «A Milano vado a mangiare sardo dal mio amico Virdis»

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È stato per anni il re dell’estate smeralda. Nel suo locale a Poltu Quatu andavano tutti. Da Raul Gardini a Enrico Mentana, da Gerry Scotti a Heather Parisi, da Zucchero a Francesco Totti. Un fenomeno di successo figlio però di una carriera che ha visto Umberto Smaila spaziare in tutti i campi, dal cabaret alla tv, dal cinema alla musica.

Smaila, da piccolo dove si vedeva?
«Ho iniziato a fare il funambolo a 8 anni. I miei genitori mi iscrissero a una scuola parallela a quella normale, una scuola artistica che prevedeva corsi di dizione, recitazione e pianoforte. Questo mi portò ad avere in mano una tecnica pianistica, una certa predisposizione per la recitazione e sapevo anche qual era il modo corretto di parlare. Non sono mai stato lontano da questo mondo, tanto che già al liceo facevo gli spettacoli di rivista».

La carriera sua e quella degli altri Gatti di fatto inizia sui banchi del liceo Maffei di Verona.
«È stato un percorso un po’ tribolato per arrivare alla formazione definitiva. Nini Salerno era stato bocciato due volte, mentre Jerry Calà, un anno più giovane, non essendo un fenomeno a scuola aveva dovuto recuperare tre anni in uno per ricongiungersi con noi. Franco Oppini era discretamente un secchione e finì il liceo in tempi regolari. Anche io, ma con alcuni escamotage. Siamo usciti tutti dagli studi classici e questo ha influito anche sui nostri spettacoli».

La vostra prima trasferta, da Verona a Roma, fu un flop.
«Eravamo dei provinciali allo sbaraglio e in realtà noi volevamo andare al Derby di Milano. Mandammo un emissario a parlare con Gianni Bongiovanni, gli portò un nastro che avevamo preparato con tanta cura, ma non sortì l’effetto desiderato. Ci bocciò, troppo simili ad altri, ma disse: quando farete qualcosa di vostro tornate. Dopo due anni tornammo e fummo assunti».

Cosa era il Derby?
«Era il tempio del cabaret. Ai tempi non era come adesso che ci sono molte più possibilità, anche se molti più contendenti. All’epoca c’era una selezione naturale, se funzionavi al Derby avevi il passaporto per questo mestiere. Ho ancora conservata la prima locandina: c’era il nostro nome, poi quello di Cochi e Renato, e più in grande Paolo Villaggio ed Enzo Jannacci».

Qual era il clima al Derby?
«Noi eravamo i cuccioli. Per tararci un po’ fummo affidati ad Arturo Corso, aiuto regista di Dario Fo. Tutta la nostra mimica la imparammo da lui. Un qualcosa di straordinario per noi arrivati dalla provincia veneta. Il Derby è stata la nostra università».

Che ruolo ha avuto nella vostra carriera Cino Tortorella?
«Lui passa per essere il Mago Zurlì, ma dietro questo pagliaccetto c’era un personaggio di grande spessore. Fu lui che ci portò al Derby: ci ascoltò cantare, ci buttò sul palco e funzionammo. E anche nel 1976 quando non si smuovevano le acque in tv ancora una telefonata di Cino ci aprì le porte della Rai per uno show del pomeriggio. Da lì ci notarono Pippo Baudo e l’agenzia Marangoni e arrivò Non stop: fu la svolta decisiva».

Arriva il successo: spopolate tra tv, musica e cinema. Vi siete mai montati la testa?
Quando hai la fortuna di lavorare in un gruppo vengono smussati tutti gli angoli, negativi e positivi. C’è questa forma di cameratismo che ti porta ad affrontare le cose in modo più leggero. Se uno si montava la testa veniva preso a sberle dagli altri tre».

A un certo punto Jerry Calà lascia i Gatti. Quanto c’è voluto per perdonarlo?
«Cinque anni. Ci siamo ricompattati in una birreria di Verona. A me era successa una cosa analoga, Fatma Ruffini, sergente di ferro di Canale 5, mi propose un programma e dovetti confrontarmi con gli altri due. Mi ritrovai negli stessi panni di Jerry, fu una sorta di nemesi e lo capii».

Capitolo Colpo grosso: come arrivò alla conduzione?
«È storia della tv, ci sono un prima e un dopo Colpo grosso. Cambiò il costume degli italiani. Per farlo chiesi di avere anche un altro programma. E così fu: il pomeriggio ero su Canale 5, alle 22.30 e alla una in replica su Italia 7. Il diavolo e l’acqua santa».

Silvio Berlusconi si vedeva?
«Lui non è mai venuto negli studi di Colpo grosso, ma Pier Silvio sì. Lui era amico di Valerio Staffelli, ai tempi il mio segretario. Con Silvio ci accomunava l’amore per la Sardegna: io sono sempre stato un ottimo promoter dell’isola, ma nessuno come lui. Portò persino Putin».

Quando scocca il suo amore per la Sardegna?
«Quasi cinquant’anni fa. La prima volta fu nel sud: Porto Pino, Porto Pineddu, Teulada. Poi mi sono spostato al nord, l’arcipelago e Porto Cervo, dove presi casa insieme a uno dei miei migliori amici, Pietro Paolo Virdis, che a Milano ha un bistrò dove vado spesso a mangiare formaggio, cannonau, bottarga. Ma io conosco bene tutta l’isola: ogni anno faccio una tappa all’azienda Canu della famiglia Nolis sulla strada per Luogosanto. Sono imbevuto di Sardegna».

Cos’è stato lo Smaila’s?
«Era un punto di ritrovo per artisti e ricconi, ma in realtà era aperto a tutti. Il prezzo era un po’ alto, ma non c’era selezione all’ingresso. Ai tempi non c’era la mania del fascino dell’esotico, tutti venivano in Sardegna. Calciatori, attrici, ma anche personaggi come Niki Lauda e Alberto Bevilacqua».

Le serate più belle?
«Tantissime. Un giorno venne Gino Paoli. Era curioso, ma mi disse: “mi raccomando, non farmi cantare”. A un certo punto dico: “voglio dedicare una canzone a un amico che è qui”. E attaccai “Il cielo in una stanza”. Tutti si misero a cantare e negli occhi dell’austero Gino lessi un po’ di commozione. Così si alzò e fece “Sapore di sale”».

Paolo Villaggio era assiduo.
«Quando stavo finendo alle 3, sudato ed esausto, sentivo una mano sulla spalla. Era Villaggio. “Mi faresti What a wonderful world?”. Riuscivo sul palco e lui era felice come una Pasqua. Fu lui a inventare la cosa dei fazzolettini sventolati durante “oi vita oi vita mia”. Ora lo fanno tutti».

Suo figlio Rudy spesso la affianca nei suoi show: quale consiglio si sente di dargli?
«Lui lavora molto anche da solo. Gli do il consiglio che gli ho dato all’inizio: non devi pensare di essere un cantante ma un entertainer. Devo dire che ha imparato come si fa. Non dico che l’allievo ha superato il maestro ma ci siamo quasi».

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