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Buon gusto – Speciale panadas

Panadas, da base della dieta dei pastori a cibo per feste e street food

di Carolina Bastiani
Panadas, da base della dieta dei pastori a cibo per feste e street food

Nel paese di Oschiri la lunga tradizione dei “cestini” ripieni di carne e anguilla. La “chiusura” è rigorosamente artigianale

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Per capire se si eccelle nella lavorazione della pasta fatta a mano e testare le proprie doti di massaia la prova da superare è la “chiusura” della panada, un cestino di pasta di semola, tipico della tradizione culinaria sarda che, sotto al suo “coperchio”, contiene un gustoso ripieno. La “cosidura”che serve a sigillare il saporito cestino è tuttora l’unica parte del processo produttivo che conserva un certa valenza artigianale, insostituibile dalle attrezzature moderne. Forse introdotta dopo l’arrivo degli spagnoli, forse presente da sempre, una cucitura ben fatta eviterà che la panada si apra in cottura. Lo sanno bene ad Oschiri, considerata, insieme ad Assemini e Cuglieri, la patria delle panadas.

La panada oschirese, in particolare, viene usata durante i matrimoni o le feste comandate e, fin dalla sue origini, conserva un rapporto speciale con le festività pasquali, durante le quali diventa la star della tavola. Il ripieno più ricercato, insieme a quello di agnello, è quello di anguille pescate alla diga del lago Coghinas. Il ripieno più comune, invece, è quello di suino, che, un tempo, si inseriva nel rito contadino e familiare di uccisione del maiale. Una volta, infatti, quasi ogni famiglia ne possedeva uno in cortile o in campagna e, al momento del macello, una parte della sua carne e del suo grasso venivano destinati alla preparazione delle panadas, che venivano cotte nei forni a legna usati anche per il pane.

A raccontarlo è Antonio Masia, fondatore, insieme alla sorella Sara, delle “Delizie di casa”, un’azienda di Oschiri a conduzione familiare a cui collabora anche la madre Tomasina. Antonio Masia spiega anche tutti i cambiamenti a cui questo piatto è andato incontro nel corso del tempo.

«Le panadas – racconta – erano la base dell’alimentazione dei pastori. Dovendo stare giorni e giorni fuori casa, avevano bisogno di un modo facile per conservare il cibo. In poche parole, la pasta veniva usata come oggi usiamo un comune recipiente di plastica per conservare gli avanzi in frigo». Il pastore, cioè, doveva semplicemente tagliare e sollevare il cerchio, mangiare il ripieno e richiudere. La pasta fatta con lo strutto rimaneva dura e manteneva al fresco la carne o il pesce.

«In origine – continua Masia – una panada poteva contenere fino a un chilo di ripieno. Oggi le dimensioni si sono notevolmente ridotte, non solo per una questione commerciale, ma soprattutto perché nessuno mangerebbe per tanti giorni consecutivi anguille o agnello». E sempre per esigenze di mercato si sono aggiunte nuove varietà di panadas, come quelle di verdura, carciofi e patate, polpo e patate, nero di seppia, gamberetti e zucchine. Eppure, nonostante le inevitabili evoluzioni, le panadas vengono preparate con un procedimento collaudato. L’impasto lavorato e messo a riposo per due ore, viene steso e tagliato in dischi di due diverse dimensioni, grande per la base e piccola per il coperchio. Il disco grande viene lavorato in forma di tazza, che poi viene chiusa con il ripieno all’interno. La chiusura avviene unendo con l’indice ed il pollice i bordi della pasta a forma di cordoncino, ottenendo un risultato sia funzionale che decorativo.

La pasta viene tradizionalmente lavorata sul legno, mentre il ripieno di carne in “sa conca” oppure in “su conculu”. Antonio Masia e la madre sono reduci da un recente viaggio in Svizzera, dove, in un circolo sardo vicino a Bussigny, hanno raccontato ai sardi emigrati la storia e le fasi di lavorazione della panada. La manifestazione ha suscitato un grande interesse anche negli svizzeri.

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