Corinne Cléry: «Dico sempre no, all’inizio pure a Bond. Spogliarmi non mi ha mai fatto paura»
L’attrice parigina si racconta: «Sono arrivata in Italia nel 1971 per amore e non me ne sono più andata. Della Francia mi manca la libertà»
Le è bastato un film per diventare il simbolo erotico di una generazione. Con il leggendario “Histoire d’O” Corinne Cléry ha raggiunto fama e successo, copertine e contratti. Eppure il cinema non era nei suoi piani. L’attrice, oggi 74enne, non voleva essere fagocitata da un mondo che, a quasi 50 anni da quel film cult, non le appartiene. Tanto che ancora oggi, racconta con quell’accento francese che non ha mai perso dopo tanti anni in Italia, alla mondanità preferisce il suo casolare nella campagna laziale circondata dai cani.
Vive in Italia dal 1971. Pensa in italiano o francese?
«Penso in italiano, sogno in italiano. L’unica cosa che faccio in francese è contare. Altrimenti non memorizzo».
Il suo sogno da bambina?
«Volevo fare la hostess di lungo raggio, volevo viaggiare, essere libera. Mio padre mi disse: “Guarda che faresti la cameriera sugli aerei”. Allora ho lasciato perdere. Poi mi sono sposata a 17 anni e mezzo, a 19 anni avevo già un figlio e un anno dopo ero divorziata. Dopo ho lasciato fare al destino e sono stata fortunata. Ho iniziato a fare fotomodella a Parigi, poi a Milano...».
Cosa la portò in Italia?
«Ma che domanda... ovviamente un ragazzo italiano. Avevo 21 anni, lui 25. Ci siamo conosciuti a Saint Tropez, ci siamo innamorati subito e mi ha portata in Italia. E io sto ancora qui».
Quando entra il cinema nella sua vita?
«A me il cinema non interessava, e infatti non lo frequento. Non conosco nessuno, ho solo due grandi amiche: Barbara Bouchet e Stefania Sandrelli. Ho iniziato per caso in Francia con “Histoire d’O”».
Quel film le dà una popolarità pazzesca. Disse subito sì o ha avuto dubbi per le tante scene di nudo?
«Io non lo volevo fare, ma non per il film in sé. Non volevo fare cinema. Successe che il migliore amico mio e del mio secondo marito era uno dei più grossi agenti e aveva messo sulla sua scrivania una foto di noi tre. Il produttore di “Histoire d’O” entra nel suo ufficio per fare una telefonata e vede la mia foto: “Voglio lei”. Inizia a tempestarmi di chiamate, ma io non volevo. Alla fine accetto di fare il provino a Parigi perché mi pagavano il viaggio. A un certo punto, durante il provino, però arrivò un grande produttore per fare firmare il contratto a un’altra attrice, mi chiusero nello sgabuzzino e quello se ne andò furioso. Prima di accettare chiesi di chiamare mio padre. La sua reazione fu: “Ti hanno scelta per “Histoire d’O”? Ma tu non sei sexy”».
La nudità non era un problema?
«Il nudo non mi faceva paura. In spiaggia mia mamma, io, mia sorella stavamo sempre in topless. La volgarità era ben altro».
Il cinema le apre le porte: “Bluff” con Adriano Celentano e Anthony Quinn.
«Fu il mio primo film italiano. Non volevo fare neanche quello. Io dico sempre no, poi cedo: anche oggi vado sempre a pelle, e infatti faccio tanti sbagli. Eravamo in Sardegna. Prendevo il sole sulla barca, si avvicina a nuoto questo signore grosso e dice a mio marito: “Luca, chi è questa visione? Deve fare il mio prossimo film”. Era Sergio Corbucci. Alla fine ho accettato ed è stato stupendo. Fare il film era un optional, in realtà eravamo una grande famiglia: Adriano con Claudia, Anthony e la moglie, Capucine, i bambini piccoli...».
Diventerà anche una Bond girl al fianco di Roger Moore.
«Anche lì fu un no. Avevo appena rifiutato un contratto con la Paramount a Los Angeles per quattro anni. Al mio agente dissi che non lo volevo fare. Ricordo che allora mi chiamò a casa Albert R. Broccoli, il produttore di James Bond. Ero in bagno con mio figlio. Io gli dissi: “Sono stanca, e poi non mi va di essere un numero”. E lui: “Guardi che è il terzo nome del film, venga a Parigi che ne parliamo”. Andai e durante il pranzo mi disse: “Le faccio un altro regalo: nel film si chiamerà Corinne”».
Un rimpianto di quell’epoca?
«Dissi no a Marco Bellocchio, ma non sapevo chi fosse. Il film era “Marcia trionfale” con Franco Nero: al mio posto prese Miou Miou. Me ne sono tanto pentita, mi avrebbe permesso di entrare in un certo cinema. Ai tempi facevo tanta fatica a farmi conoscere. Quando sei una bella ragazza ci sono molti pregiudizi: bella e dunque frivola, quindi non brava».
Quando ha capito che non avrebbe più lasciato l’Italia?
«Quando mi sono separata dal mio secondo marito. Avevo 28 anni. Chiesi anche a mio figlio: che facciamo? Pensavo: o me ne vado adesso o mai più. Poi ho incontrato un altro amore italiano, Marco Risi, e non l’ho più lasciata».
Barbara Bouchet ha detto che ha impiegato anni per fare accettare le sue rughe. Il suo rapporto con gli anni che passano?
«Io non mi faccio lifting perché da grande voglio fare l’attrice. Sono fortunata perché ho preso da mia nonna e per i miei 74 anni ho pochi segni. Io sono una esplosione di vita, faccio fatica a trovare ruoli per la mia età. Anche quando ero più giovane non mi facevano mai fare la mamma, poi al massimo la mamma che rubava il fidanzato alla figlia...».
Ballando, Pechino, Gf vip, l’Isola: rifarebbe tutti i reality?
«Tutti, anche un altro nuovo se c’è. Mi diverto. L’esperienza più bella è stata Pechino Express. È stato in quel viaggio che ho capito che esiste un mondo di povertà bella, fatto di condivisione, generosità e porte sempre aperte».
Ha nostalgia della Francia?
«Mi mancano delle cose. La Francia è molto più curata rispetto all’Italia. E poi c’è più libertà. Qui ti giudicano su tutto».
Macron o Meloni?
«Non mi occupo di politica, non voto da 15 anni, perché non vedo differenze. Ma ammiro la tenacia della Meloni, ha imparato tutte le lingue, il suo ruolo è riconosciuto anche all’estero»,
Cinema, televisione, teatro, anche un disco: cosa vorrebbe aggiungere alla sua carriera?
«Ho un progetto con Barbara Bouchet, “Barbie e Cory”, un remake della serie americana “Grace&Frankie”. Forse siamo un po’ ingenue, chissà se si farà mai. E poi vorrei ritornare alla commedia. Magari una nonna sui generis che fa casino, copre le ragazze. Come era la mia. Insomma, voglio lavorare, perché il lavoro mi dà indipendenza».