Animali e demoni del Carnevale: in Gallura sono tornati “li Mascari brutti”
Da “la Fuglietta” a "la Reula”: miti e leggende nello studio di Sesto Giuseppe Santoli
Sant’Antonio di Gallura Trascina con sé una pelle di toro e il suo volto è celato da una maschera in sughero. La sua andatura gobba è accompagnata dall’inquietante rumore di pentole e catene. Si muove per il paese con altri spiriti inquieti. Lui stesso, Lu Traicogghju, è spirito penitente, creatura a metà tra animale e demone. Una figura che abita le leggende popolari della tradizione gallurese, animata ed eccitata, però, anche da altre maschere. Maschere tipiche, che, come i Mamuthones e gli Issohadores barbaricini, traggono la loro origine dal carnevale, festività che nel mondo agricolo rappresenta la rinascita dopo l’inverno. Maschere zoomorfe e travestimenti legati alla morte, evocatori dell’aldilà, dei quali c’era traccia in Gallura fino ai primi del Novecento. Poi, l’oblio. Temporaneo. A raccontare questo mondo fatto di miti, leggende e tradizioni è Sesto Giuseppe Santoli, filosofo, manager e scrittore di Sant’Antonio di Gallura. Nei suoi romanzi gialli, La Punga e La Reula, alcune di queste maschere, fanno irruzione nel mondo dei vivi, spaventandoli e tormentandoli.
Mascara gadduresa É il caso della Fuglietta, anima di morto che cammina tra gli esseri umani e li inganna, prendendo la forma talvolta di cervo, di cinghiale o di cane. Nell’alta Gallura ce n’è tuttora traccia nei modi di dire; “sei influglittatu” si dice quando qualcuno è preso dagli spiriti, quasi a rivelare la labilità del confine tra i due mondi. «È una figura che, come tutte le altre maschere, ha origini demoniache e richiama l’aldilà – spiega Sesto Giuseppe Santoli – e viene usata per esorcizzare la paura della morte e infonderne in chi non ne ha». Insieme a lu Traicogghju e ai buffoni, la Fuglietta fa parte delle cosiddette mascari brutti. «Tra queste – specifica Santoli – quello dei buffoni è il modo più recente di travestirsi, di solito reso con indumenti stracciati o pellicce di animale, con corde a tracolla e campanelli». «Un tempo – continua lo scrittore di Sant’Antonio – si mascheravano anche i pastori, vestendo pelli di lepri o di volpe. Poi uscivano di stazzo in stazzo, alla ricerca di tributi». Altre maschere tipiche della Gallura sono i Linzoli cupaltati, “lenzuola rovesciate”, con cui, in origine, burloni e delinquenti nascondevano la propria identità, mimando un fantasma. «E poi – aggiunge Santoli – la Musca machedda, simbolo di una mosca enorme veicolo di malaria, che produceva un ronzio assordante. Una creatura vincibile solo con un antico scongiuro, tracciando un cerchio che si restringe». Profondamente attuale, lu Pundacciu da li setti barretti, un folletto che rappresenta l’avidità e che si nutre dei desideri umani di possedere e accumulare. E ancora la Filugnana, che porta con sé un filo di lana, simbolo della vita umana: l’atto del filare è la nascita; quello dell’avvolgere è lo scorrere del tempo; il taglio rappresenta la morte. Infine, la Reula, raduno e processione di anime in pena. «In un’opera di Don Francesco Cossu – continua il filosofo – si legge che la Reula sarebbe nata per imitare la regola dei frati di Calangianus e di Tempio, che di notte, con i ceri accesi, andavano in chiesa per compiere uno dei loro riti. Un fatto che eccitò a tal punto la fantasia popolare che molti la ritennero davvero una schiera di morti, pericolosa da incrociare e, addirittura, da guardare».
La rinascita. Come da sempre accade in Barbagia, anche le maschere galluresi uscivano a gennaio in occasione del fuoco di Sant’Antonio e, fino ai primi del Novecento, erano le protagoniste del carnevale tempiese. A condannarle alla dimenticanza, però, una cesura culturale. «La rivoluzione si è consumata negli anni Sessanta del secolo – spiega Sesto Giuseppe Santoli – quando a Tempio è stato importato l’uso della cartapesta da Viareggio». L’artefice fu Salvatore Muzzu, che introdusse anche sbandieratori, musicisti e majorettes, ma, soprattutto, l’uso del carnevale come attrazione turistica. «Tuttavia – prosegue lo studioso – nel 2002, la professoressa Margherita Achenza, venuta a mancare qualche anno fa, ha ricostruito l’almanacco gallurese delle maschere prima dell’avvento della modernità. E ha potuto farlo sia grazie a chi, visitando la Gallura nell’Ottocento ne aveva lasciato memoria scritta, sia attraverso le testimonianze orali degli anziani». Non meno importanti, poi, le descrizioni di alcuni dizionari. «In quello del Gana, per esempio, c’era la definizione di ciò che nella tradizione popolare corrispondeva a lu Traicogghju; termine che, tra l’altro, si usa tuttora per indicare un’andatura maldestra». Le ricerche e le ricostruzioni teoriche hanno poi permesso al gruppo della Mascara gadduresa di Calangianus di poter rappresentare queste maschere, ormai da anni tornate a camminare tra le folle dei vivi che, durante la festa di carnevale, gremiscono le vie e le piazze della città di Tempio e di tanti altri paesi dell’isola.