La Nuova Sardegna

Il viaggio a Nuoro di Steiner nei luoghi del Giorno del Giudizio

George Steiner
Gef Sanna
Gef Sanna

Un pezzo del grande critico pubblicato dal New Yorker. Diario personale e insieme recensione di un romanzo giudicato un capolavoro della letteratura di tutti i tempi. George Steiner (1929), uno dei maggiori critici letterari viventi, è figura di primo piano nella cultura internazionale. Fellow del Churchill College a Cambridge, è stato docente in numerose università americane ed europee, tra cui Princeton, Stanford, Chicago, Oxford. Tra i suoi libri «Tolstoj o Dostoevskij» (1959), «Morte della tragedia» (1961), «Dopo Babele» (1975), «Antigoni» (1984), «Vere presenze» (1986), «Nessuna passione spenta» (1996), l’autobiografia «Errata» (1997), «Linguaggio e silenzio» (2001). Nell’arco di trent’anni, dal 1967 al 1997, Steiner è stato tra i collaboratori più assidui del «New Yorker», una delle riviste più autorevoli e prestigiose. Il testo sul «Giorno del giudizio» e sulla Nuoro di Salvatore Satta che pubblichiamo in queste pagine è tratto da «Letture» (Garzanti, 396 pagine, 22 euro), un libro che raccoglie una scelta dei pezzi scritti da Steiner per il New Yorker. Il grande critico insegna come si approfondisce un tema, come si crea una connessione inedita che illumina il nostro sguardo sul mondo, come si va dritto al cuore di un problema. Le sue intuizioni sono sempre innescate da un’accurata lettura dei testi. Straordinaria la sua capacità di penetrare non solo il testo di Satta ma anche la dimensione antropologica e psicologica della realtà barbaricina.

13 MINUTI DI LETTURA





Nel calore biancastro e coriaceo le colline rocciose della Sardegna assomigliano alla spina dorsale di una lucertola antidiluviana. Nel sole del primo mattino, l’aria tremola e fuma dalla roccia morta scistosa. A mezzogiorno è immobile, ma taglia come gli aculei del filo spinato. Anche il mare è silenzioso. Nell’entroterra la luce picchia con forza sugli improvvisi vuoti d’ombra nera tra le sordide case con le imposte sbarrate. Il calore si infiltra tra le ombre. Là dove una delle vertebre dorsali è più puntuta, se ne sta appollaiata la città di Nuoro. Ancora più in alto, in cima a una strada tortuosa color della cenere, sorge Orgosolo, nota ancora oggi per lo spietato banditismo e per la subdola interminabilità delle sue faide sanguinose. Mia moglie e io non siamo mai arrivati a quel luogo celebre e inaccessibile. A Nuoro, quando siamo scesi dalla macchina a nolo, soffocavamo per il caldo, nell’immobile fornace del mezzogiorno. Ed era solo giugno.

A Nuoro c’è una libreria. La maggior parte della sua offerta è costituita da libracci di attualità e da riviste un po’ volgari. Ma nel retrobottega c’è un angolo nostalgico con libri più vecchi, tra i quali le prime edizioni di Grazia Deledda, che con le sue maestose, romanticheggianti narrazioni sulla vita sarda vinse il premio Nobel nel 1926. Ma io ero entrato per cercare un pezzo ancora più raro. Il 18 maggio 1979 in un caffè di Nuoro c’era stato un dibattito, una tavola rotonda in cui si era discusso di un libro: «Il giorno del giudizio» di Savatore Satta. Leonardo Sole, Maria Giacobbe e il padre gesuita Giovanni Marchesi avevano proposto la loro lettura su diversi aspetti dell’opera. Dal pubblico, Natalino Piras aveva dato voce a una sua «lettura altra». Questi interventi erano stati poi pubblicati in una brochure di ventinove pagine a cura della biblioteca locale, che prende il nome da un altro membro della famiglia Satta. Sorpreso dalla mia richiesta, il proprietario della libreria aveva tirato fuori e mi aveva venduto quella che aveva tutta l’aria di essere l’ultima copia rimasta, non senza prima averle dato una spolverata.

Mentre aspettavamo che il caldo perdesse almeno un po’ della sua virulenza, mia moglie e io andammo a vedere il caffè (che nel libro si chiama Tettamanzi), il Corso e il cimitero su uno sperone contorto di roccia sbiancata. Ci fermammo in piazza Sebastiano Satta, con il suo assemblaggio di menhir dall’aria preistorica. Il respiro che esce dalla bocca della fornace del giorno è quello del silenzio. Quando il tardo pomeriggio lascia libere le ombre, queste si muovono, ha scritto Satta, «alla maniera di un sogno in quella landa bruciata». Il viaggio fin lì è monotono e riarso. Nuoro è un luogo chiuso. Ma visitare Nuoro è davvero l’unico modo di visualizzare appieno uno dei capolavori della solitudine nella letteratura moderna, se non addirittura di tutti i tempi, e di percepirne lo scheletro. A parer mio, e se mi baso sul mio orecchio, la traduzione di Patrick Creagh del «Giorno del giudizio» non riesce ad afferrare appieno il genio della prosa di Satta, la sua marmorea ferocia, il suo lento bruciare dentro la pietra. Il latino di Tacito e lo stile di Hobbes sono ciò che maggiormente gli si avvicina. Poter disporre del «Giorno del giudizio» in inglese è comunque motivo di compiacimento e di gratitudine. Un altro accordo in maggiore viene ad arricchire il catalogo delle nostre identità.

La somiglianza con Tacito e con Hobbes non è casuale. Salvatore Satta (1902-1975) trascorse gran parte della vita insegnando diritto e giurisprudenza a Roma, e la sua sensibilità si formò sulla dura, lapidaria latinità degli storici e dei giureconsulti romani. Il Commentario al Codice di procedura civile è un’opera monumentale e rappresenta un classico nell’insegnamento del diritto in Italia. Il suo «Deprofundis», memoria laconica e straziante delle esperienze del periodo bellico, che Satta pubblicò nel 1948, è pervaso di latinità e di quell’elevato dolore di cui è impregnata l’immagine tacitiana dell’insensatezza politica umana. Sembra che Satta abbia portato dentro di sé per mezzo secolo il materiale e il progetto di un libro sulla nativa Nuoro e sullo sclerotizzato, sonnambolico epilogo degli antichi costumi della città. Aveva accantonato molte volte questo lavoro per proseguire la propria carriera accademica. «Il giorno del giudizio» è stato pubblicato solo nel 1979. E un libro postumo non soltanto perché è apparso dopo la morte di Satta, ma soprattutto perché per molti aspetti è un libro sui morti e per i morti. Un sardo, un nuorese può ammettere che un unico luogo è ricco: il cimitero.

Il giorno del giudizio è un libro difficile da descrivere. La voce stoica del cronachista si inserisce chiedendo a sé stessa se sia il caso di richiamare la presenza spettrale delle vicende, dei gesti, delle «dramatis personae» della Nuoro di prima e dopo la Grande Guerra - se i morti non debbano accollarsi, come dice Cristo in una delle sue più enigmatiche e sdegnose ingiunzioni, di seppellire i morti. Satta si prende gioco della vanità della sua impresa, della sua pretesa di resurrezione. Allo stesso tempo, riconosce il diritto al ricordo, l’appello garbato ma insistente dei defunti alla memoria dei vivi. Nessuno scrittore della memoria, a parte Walter Benjamin, comunica in modo più toccante di Salvatore Satta (si noti il presagio contenuto nel suo nome di battesimo) il diritto degli sconfitti, dei ridicoli e degli apparentemente insignificanti a essere dettagliatamente rievocati. Nei climi nordici, il mormorare del vento tra le foglie, segno della loro venuta, è concesso una volta l’anno, alla vigilia della festa di Ognissanti. A Nuoro quella notte dura tutto l’anno. I defunti sono perennemente vicini, a implorare, a supplicare l’elemosina del ricordo. Le reazioni di Satta sono beffarde: «Scrivo queste pagine, che nessuno leggerà, perché spero di avere tanta lucidità da distruggerle prima della mia morte». Per chi le scrive dunque? Per i morti, il cui ascolto denso e palpabile dà a Satta il senso di una dimestichezza con il tempo e con la terra calcinata che nessun individuo di una «communitas» tradizionale può, o vorrebbe, conseguire da solo.

La composizione del testo, allo stesso tempo episodica e fittamente intrecciata al proprio interno, richiama alla lontana quella dell’«Antologia di Spoon River», ci sono momenti di vivace satira sociale, voci pompose o tumultuose come quelle che si odono in «Sotto il bosco di latte». Ma né Edgar Lee Masters né Dylan Thomas hanno l’intelligenza filosofica, la pazienza della sensibilità che consentono a Satta di realizzare una struttura formale pressoché priva di difetti. Migliore analogia la troviamo nei pittori. Gli effetti raggiunti nel «Giorno del giudizio» possiedono la misteriosa autorità che vive nella grana delle cose in uno Chardin, l’opaca luminosità che ci arriva dai corpi umani di La Tour.

La casa e la famiglia di Don Sebastiano Sanna Carboni fanno da asse al «romanzo antropologico» di Satta (questa la classificazione del libro proposta da alcuni critici italiani, ma esatta solo se riteniamo che nell’«antropologia» sia inclusa una descrizione filosofica della condizione di fondamentale nudità dell’uomo). La famiglia, o clan, è molto grande: sentiamo parlare di sette figli. Ma uno stentoreo, aspro silenzio impera tra Don Sebastiano e sua moglie, Donna Vincenza. Le cene di famiglia provocano nel padrone di casa attacchi di vertigini. Mangia da solo, nella stanza al piano superiore dove coltiva, come un ragno la sua tela, le arti tenaci del patrocinio e del consulto legale. Gli interminabili studi dei figli, l’immemoriale inerzia nuorese che sembra stagnare nelle loro ossa fanno infuriare Don Sebastiano.

Forse che i figli dei milionari della lontana, fantasmagorica America da giovani non si guadagnano da vivere vendendo giornali? Donna Vincenza, portata oltre i limiti del martirio dalla fredda rabbia del marito, dall’usura delle faccende domestiche sul suo fisico sfiorito, dalla claustrale monotonia e dalle delusioni della carne paralizzanti come vecchi sogni, leva la sua voce di protesta. La gente in America «ha tutte le comodità», dice. «Non sono come noi». La risposta del marito è una sentenza tra le più feroci della letteratura - è letteralmente una sentenza di morte: «Tu stai al mondo soltanto perché c’è posto». La traduzione di Creagh - «You’re only in this world because there’s room for you» - è più o meno esatta, ma non è all’altezza dell’originale. L’italiano evoca una nicchia oscura, predestinata in cui sono immesse le vite insignificanti e prigioniere, e dalla quale non c’è via d’uscita. Ed è proprio la mancanza di vie d’uscita che conferisce a queste vite la loro logica contingente del tutto umiliante.

Per certi versi l’intera opera si snoda a partire da questo raggelante verdetto. A Nuoro, di quasi tutti, uomini, donne e bestie, si può dire che stanno sulla loro incenerita terra natia unicamente perché c’era un’effimera menzione del loro passaggio terreno nel «Libro del giorno del giudizio». Maestro Fadda, dai tristi lineamenti che ricordano quelli di un re etrusco, è lì per insegnare a una quarta e a una quinta nella scuola di Nuoro e per divertire gli sfaccendati al caffè. Chischeddu «era uno di quei rottami che, non si sa per quale ragione, approdano nelle chiese, e vengono ammessi da Dio o dal parroco a partecipare alla vita dello spirito come scaccini, sacristi». Fileddu, il demente, è il buffone ufficiale quando i venti soffiano dall’Africa come fuochi che ardono sotto la cenere. Queste vite che ci vengono presentate hanno una realtà? Prendiamo Pietro Catte.

Non c’è il minimo dubbio che Pietro Catte in astratto non sia una realtà, come non lo è alcun altro uomo su questa terra: ma il fatto è che egli è nato ed è morto (lo attestano quegli irrefutabili atti), e questo gli dà una realtà nel concreto, perché la nascita e la morte sono i due momenti in cui l’infinito diventa finito; e il finito è il solo modo di essere dell’infinito. Pietro Catte ha tentato di sottrarsi alla realtà impiccandosi all’albero di Biscollai: ma la sua è stata una vana speranza, perché non si può annullare il proprio essere nati. Per questo io dico che Pietro Catte, come tutti i miseri personaggi di questo racconto, è importante, e deve interessare tutti: se egli non esiste nessuno di noi esiste.

Lo spontaneo imperativo dell’esistenza si è prodotto, certamente nel mondo anteriore al 1914, quasi in forma atemporale. Per i pastori delle colline e i mezzadri non ci sono né passato né futuro, solo la coercizione della tradizione. Le percezioni e le gioie hanno la pazienza senza profondità di un ordine delle cose anteriore all’alfabetizzazione.
Satta risulta innovativo e convincente nella sua analisi indiretta dei modi in cui analfabetismo e prealfabetizzazione stanno in rapporto con l’atemporalità. Donna Vincenza era intelligentissima, anche se sapeva appena leggere e scrivere, e perciò traboccava d’amore, senza saperlo: amava quei poveri mobili della sua casa, i ricami sulle federe alle quali attendeva con la madre tutto il giorno [...], la corte di casa, coi fichi e i pomodori messi a seccare sulle tavole tra il canto avido delle api e delle vespe; amava soprattutto l’orto, nel quale ancora si aggirava cogliendo i fiori e la frutta, anche se le sue gambe ingrossate la reggevano sempre meno. E aveva amato Don Sebastiano, quest’uomo che era venuto a chiederla in sposa e l’avrebbe condotta in un’altra casa.

Anche per coloro che hanno una cultura, per i figli di Don Sebastiano e per i canonici o gli avvocati, i testi scritti non implicano, come per noi, un progresso. Vecchi libri, pandette obsolete, commentari tarlati mantengono la propria autorità in un polveroso presente. Le campane, che svolgono un ruolo magico nell’architettura del «Giorno del giudizio», suonano i rintocchi dell’immutabilità. Il fidanzamento tra Ludovico e Celestina dura dodici anni. Si conclude con una separazione. La castità si rimodula impercettibilmente in pienezza e in conforto del lutto.

Eppure la narrazione brulica di azioni: solenni, comiche e violente. L’assassinio e il suicidio non mancano. L’uva appena vendemmiata entra nella corte di Don Sebastiano in ottobre, una di quelle «onde di ricordi che si accavallano in un assurdo disordine, come se tutta l’esistenza si fosse svolta in un solo istante». Il portale viene spalancato «in una severa attesa» (un’espressione caratteristica di Satta). I buoi incespicano come se i loro grandi occhi fossero ciechi. Dentro ai tini cavernosi i grappoli pigiati dai rulli spargono il loro profumo inebriante nel buio notturno della casa. Ma c’è, in quella massa iridata, un Dio nascosto, perché non passeranno molte ore, ed ecco un’orlatura violacea apparirà lungo tutto il bordo: allora la massa si solleverà come in un respiro, perderà la sua innocenza e rivelerà, in un sordo gorgoglio, il fuoco che la divora. Tutto avverrà di notte, perché la vita e la morte sono figlie della notte.

L’allusione è molto precisa: rimanda alla cosmogonia preclassica greca e mediterranea. I riti dell’esistenza di Nuoro sono antichi almeno quanto Omero. Ma quando Satta racconta di come l’artificio di un’autodichiarazione di povertà costruisca barriere contro l’opulenza e la generosità naturali del mondo, l’intonazione e l’ironia sono quelle degli autori latini di satire e dei moderni.

Un altro capitolo virtuosistico narra l’arrivo dell’illuminazione elettrica a Nuoro, in una gelida sera d’ottobre. Tutto il paese si è riunito, pieno di diffidenza e vagamente risentito, addirittura con la speranza che succeda il peggio. E d’improvviso, come in un’aurora boreale, queste candele si accesero, e fu fatta la luce per tutte le strade, proprio da San Pietro a Sèuna, un fiume di luce, tra le case che restavano immerse nel buio. Un urlo immenso si levò per tutto il paese, che sentiva misteriosamente di essere entrato nella storia. Poi, gli occhi stanchi di guardare, la gente infreddolita rientrò piano piano nelle proprie case o nei propri tuguri. La luce rimase accesa inutilmente. Si era levata la tramontana, e le lampade sospese nel Corso coi loro piatti si misero a oscillare tristemente, luce e ombra, ombra e luce, rendendo angosciosa la notte. [...] I fanali a petrolio di Nuoro, che ormai non servono più ma che qualcuno rimpiange, vengono venduti a Oliena, un paese dall’altra parte della vallata. Quando cade la sera, i nuoresi vanno a vedere Oliena che si illumina «un fanale dietro l’altro, che si potevano contare», scrive Satta. «E chissà se anche là i ragazzini non correvano appresso al lampionaio, a raccogliere i fiammiferi spenti». Solo nei «Morti» di Joyce risuona in maniera tanto commovente il passo del tempo che mai più tornerà.

È difficile resistere alla tentazione di citare: dai capitoli condotti con brio che hanno per tema i raggiri ecclesiastici e le morti solitarie e implacabili, da un altro che descrive l’oratoria politica e le elezioni a Nuoro, o dalle analisi sulle trasformazioni portate da coloro che ritornavano dal fronte e dalle città nel periodo 1915-1918. Il testo però dovrebbe essere assaporato come un tutt’uno, e una sola lettura non è sufficiente per scandagliarne il riso e la desolazione. Il più delle volte questi due elementi sono inseparabili. Ormai moribondo, Prete Porcu trova le forze per un’ultima preghiera nella casa di Dio. Riesce con fatica a superare la salita lastricata del Corso. Sguardi di curiosità seguono la sua spettrale sortita. Poi la sua voce risuona nel silenzio: «Signore, vedete come sono vecchio e malato. Prendetemi con voi. Io non posso più nemmeno dirvi la Messa, perché non mi reggo in piedi. Signore, prendetemi con voi. E per il bene della chiesa, prendetevi anche l’arciprete. Così tutto sarà pace». [...] La migliore introduzione a questo capolavoro è dello stesso Satta: «Come in una di quelle assurde processioni del paradiso dantesco sfilano in teorie interminabili, ma senza cori e candelabri, gli uomini della mia gente. Tutti si rivolgono a me, tutti vogliono deporre nelle mie mani il fardello della loro vita, la storia senza storia del loro essere stati. Parole di preghiera o d’ira sibilano col vento tra i cespugli di timo. Una corona di ferro dondola su una croce disfatta. E forse mentre penso la loro vita, perché scrivo la loro vita, mi sentono come un ridicolo dio, che li ha chiamati a raccolta nel giorno del giudizio, per liberarli in eterno dalla loro memoria».
Il lettore non se ne libererà facilmente, né avrà il desiderio di liberarsene.

Tratto da «Letture», di George Steiner
© 2010 Garzanti Libri s.p.a.
© 2009 by George Steiner
Traduzione dall’inglese di Fiorenza Conte
Per gentile concessione
di Luigi Bernabò Associates srl
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