La Nuova Sardegna

Viaggio nel laboratorio Aou tanti test e poco personale

di Claudio Zoccheddu
Viaggio nel laboratorio Aou tanti test e poco personale

Migliaia di provette processate ogni giorno ma i dipendenti non bastano

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SASSARI. La sensazione è la stessa di quando si osserva un alveare: spazi ristretti e tanti lavoratori impegnati, ognuno immerso nel suo compito. Il materiale arriva dall’esterno, chiuso dentro contenitori termici o in sacche a tracolla. I mini-frigo portatili contengono le provette di raccolta in cui è stata appena spezzata la parte terminale del tampone, che in questa fase è immerso nel liquido di trasporto. Il carico speciale può arrivare da ogni parte del nord Sardegna, che siano strutture ospedaliere o case private appena visitate dai medici delle Usca. L’unica cosa certa è che quelle provette, in cui viaggiano anche i test sierologici quantitativi (quelli che prevedono un prelievo di sangue), finiscono tutte al laboratorio Covid-19 di Microbiologia e Virologia dell’Aou di Sassari, in viale San Pietro. Una volta arrivate al piano terra della palazzina dedicata alle malattie infettive, il carico passa da una finestrella affacciata sull’atrio e inizia il suo percorso di analisi che prevede diversi passaggi scanditi da altrettanti periodi di attesa. Dentro alle provette, oltre a liquidi e tamponi, ci sono le speranze dei pazienti, ovviamente legate all’esito e alla differenza che oggi può fare una positività o una negatività.

Dentro il laboratorio. Per accedere in sicurezza è necessario indossare un camice che ha l’effetto di una sauna portatile, il tessuto non permette la traspirazione e la prima reazione che si può osservare è la liquefazione di chi lo indossa, soprattutto se sotto veste abiti pesanti. Superata la vestizione, si può entrare nel laboratorio. Si tratta di poche stanze messe in comunicazione da un corridoio. Eppure, è questo il sancta sanctorum dell’emergenza, dove generalmente entrano solo i medici e i tecnici coordinati dal professor Salvatore Rubino, che dirige la struttura. È qua che le provette iniziano il loro percorso nella pancia di macchinari che hanno la pessima caratteristica, agli occhi di un profano, di assomigliarsi tutti. Un po’ come le giornate di chi ci lavora, che dall’inizio dell’emergenza vive un giorno della marmotta che si ripete all’infinito. Si ripetono gli stessi carichi di lavoro sproporzionati, il laboratorio lavora 24 su 24 e 7 giorni 7, si ripetono gli stessi gesti e si ripetono anche le presenza del personale, praticamente sempre lo stesso. «Oggi siamo fortunati – esordisce il professor Rubino – dopo che ci sono stati assegnati due container siamo riusciti a liberare i corridoi dagli scatoloni. Ora c’è molto più spazio».

I macchinarti sono custoditi nelle stanze e davanti a ogni apparecchio c’è almeno una persona al lavoro. Ci sono le cappe di biosicurezza – una è arrivata grazie alla raccolta di fondi organizzata dalla Fondazione Dinamo in partnership con la Nuova Sardegna e il Banco di Sardegna –, i sistemi per l’individuazione del virus e quelli robotizzati per i test molecolari e per il sequenziamento del virus, alcuni frigoriferi, due grandi celle frigo i cui si conservano le provette e diversi altri macchinari utili al completamento del ciclo di analisi. Ogni provetta necessità del suo tempo, se la carica virale è alta, il ciclo è più veloce. Se la carica virale è bassa, il ciclo si ripete fino a 40 volte andando a caccia anche delle concentrazioni più basse.

I numeri. La vita nel laboratorio analisi è cambiata tra febbraio e marzo: «I primi tamponi sono stati processati il 6 febbraio – spiega Rubino –. Arrivavano da due persone di origine cinese ma erano negativi, si trattava di un’influenza classica. Il primo positivo è stato processato il 6 marzo, da quel momento è cambiato tutto. Prima processavamo 600 tamponi all’anno, spesso relativi a casi sospetti di meningite o Hiv. Adesso siamo arrivati a completarne in media mille al giorno, con un record di 1500. In tutto ne abbiamo processati 117mila». Il problema è che le “entrate” superano i “processi” e molti tamponi finiscono in coda: «Arrivano qua da tutto il nord Sardegna. Sappiamo benissimo che i tempi di attesa possono essere lunghi ma facciamo il nostro meglio, destreggiandoci tra le urgenze e le “iperurgenze” che ci vengono segnalate dall’Ats e che spesso saltano la fila perché ritenute prioritarie. Noi siamo al lavoro tutti i giorni e non possiamo fare molto più di quello che già facciamo». La squadra, in effetti, non è numerosissima: «Attualmente lavorano 4 dirigenti senior dell’Aou e 10 giovani, tra cui tre specializzandi che presto discuteranno la tesi. Poi c’è un capo tecnico aiutato da altri 5 tecnici a contratto – continua Rubino –. Ci servirebbe più personale, abbiamo già fatto la richiesta. Personalmente spero che vengano confermati tutti i giovani. Adesso hanno un contratto di sei mesi ma hanno dimostrato di essere degli ottimi professionisti. Poi ci sono i tecnici, figure professionali difficilissime da trovare, in Sardegna non ce ne sono disponibili. La realtà è che stiamo vivendo una situazione di guerra, dove le promozioni si ottengono sul campo». E mentre i giovani dottori si fanno le ossa, tre di loro hanno completato la specializzazione che concluderanno una tesi sul Covid: «Trattando argomenti per nulla banali, come le cause e la fenomenologia del “Caso Estate” che ha investito l’isola, la gestione diagnostica a terapeutica del Covid-19 e le metodologia per la sierologia. In Sardegna saranno i primi e non credo che in Italia ce ne siano tantissimi», conclude Rubino.

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