La Nuova Sardegna

Inquinamento

La corsa all’oro diventata un incubo, per i veleni di Furtei pagano soltanto i sardi

di Andrea Sini
Furtei il disastro causato dalla Sardinia Gold Mining nella miniera
Furtei il disastro causato dalla Sardinia Gold Mining nella miniera

Il disastro causato dalla Sardinia Gold Mining è una ferita ancora aperta

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Il lago dei veleni non ospita alcuna forma di vita ma tutto intorno la natura sembra scoppiare di salute. Dalle rive del “bacino sterili” di quella che fu la miniera d’oro di Santu Miali la sensazione è quella di trovarsi in un mondo capovolto. L’esplosione di colori della primavera della Marmilla, nei 530 ettari di pertinenza della famigerata Sardinia Gold Mining, si alterna a scenari lunari, con montagne fatte a fette, pozze di veleno e sommità abbassate anche di quaranta metri a colpi di dinamite. Il peggio però è in quello che non si vede: e cioè nell’acqua contenuta in questo invaso che prima non c’era, nel sottosuolo, nell’impasto di rocce sbriciolate e impastate di sostanze letali. Le ginestre in fiore, rigogliose sull’altro versante della collina, da questa parte non crescono, eppure la natura si è rimessa in moto da tempo, persino qui. Si sono messe in moto anche le bonifiche, da qualche anno e con enorme ritardo, ma i 65 milioni di euro che la Regione sta spendendo attraverso l’Igea, della quale è azionista unica, difficilmente saranno sufficienti al ripristino di luoghi ormai disastrati. Quella della miniera d’oro nata tra i territori di Furtei, Segariu, Serrenti e Guasila è una storia di ordinario colonialismo industriale nata nei primi anni Novanta. Colonizzatori arrivati dall’Australia per regalare alla Sardegna disastri ambientali in cambio di promesse su non meglio precisate fonti di benessere, una manciata di buste paga in cambio di permessi facili e una sostanziale mano libera su tutto: per estrarre l’oro dalla matrice rocciosa, in questa caricaturale riproduzione del Klondike, era infatti necessario “arricchire” il minerale. Limitando al massimo i tecnicismi, significa che per le porzioni superficiali ossidate veniva attivato un circuito di “cianurazione”, mentre per le altre parti entravano in ciclo i solfuri.

Metalli pesanti come mercurio, arsenico, cadmio, piombo e zinco, e altre amenità come il cianuro, sono solo una parte dell’eredità lasciata nel sottosuolo dalla banda australiana che di fatto era socia in affari della Regione. La quale deteneva infatti il 10% della società. Poi arrivarono i canadesi, poi ancora gli australiani, ma nel marzo 2009 la Sardinia Gold Mining Spa venne dichiarata fallita e – di fatto da un giorno all’altro – abbandonò la bomba ecologica di Santu Miali al proprio destino. Con il classico seguito di cause, caccia ai responsabili, scaricabarile vari, un solo processo e nessuna condanna. Per rendere pienamente l’idea di questo scenario, oggi rimasto sospeso a metà tra la sensazione morte e un complicato tentativo di ritorno alla vita, l’unica via è una visita clandestina al di là delle reti che delimitano molti di questi 530 ettari.

Le cifre di questo disastro sono comunque più che sufficienti a inquadrare meglio questa follia arrivata dall’altra parte del mondo ma che di fatto è tutta sarda. La quantità di oro presente era relativamente modesta, circa 8 grammi per ogni tonnellata di roccia sbancata. Il numero complessivo di metri cubi sbancati e pompati di sostanze nocive, è stato quantificato in circa 2 milioni, compresa la collina decapitata per 40 metri di altezza. Complessivamente, durante poco meno di due decenni di attività, vennero estratte 5 tonnellate d’oro, tra le 6 e le 7 d’argento e dalle 15 alle17mila di rame. Il tutto, naturalmente, a beneficio esclusivo della proprietà, alla quale nessun politico aveva pensato di far presentare una fidejussione a garanzia del ripristino dei luoghi una volta terminata l’attività. Infatti, al momento della fuga, la società mineraria non effettuò le operazioni di ripristino ambientale, ma neppure quelle di messa in sicurezza del sito. Che per anni è stato sorvegliato dai dipendenti dell’estinta società. Anche perché uno dei rischi maggiori è che in caso di forti piogge il bacino degli sterili – le cui acque presentano una concentrazione di solfati che può arrivare a 18.000 milligrammi per litro – superino gli argini e corrano verso valle.

Un rischio che ovviamente non può essere escluso se si considerano le infiltrazioni nel terreno e il possibile inquinamento delle falde sotterranee. Tutto intorno, campi coltivati e pascoli fanno da corona a questo luogo che l’uomo ha trasformato in inferno. Della febbre dell’oro, oggi in Marmilla sono rimaste soltanto le scorie e i metalli pesanti. Parte dei quali interrati sotto l’asfalto lungo un tratto della Carlo Felice. Dei politici che alzavano al cielo in segno di trionfo lingotti appena sfornati, o che chiudevano entrambi gli occhi su un disastro non annunciato ma ormai evidente, restano immagini sbiadite e dichiarazioni fuori dal tempo e, di fatto, dalla realtà. Dei responsabili materiali di uno dei più grandi disastri ambientali che l’uomo abbia provocato in Sardegna si sono perse le tracce da tempo. Nessuno ha pagato, nessuno pagherà. Chi paga, oggi e chissà ancora per quanto tempo, sono invece i sardi. Sulle cui tasche sono rimaste in capo le spese per le bonifiche e sulla cui terra resterà per sempre il segno di uno sfregio con pochi precedenti.

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