La storia millenaria di Sassari
Antonello Mattone racconta lo sviluppo della città crocevia di popoli e culture, sale della sua unicità
Nata in un territorio abitato fin dal periodo prenuragico, ma esplosa all’improvviso, nell’Alto Medioevo, in un crocevia di popoli, culture e influenze che saranno il sale della sua unicità. Passata per tanti padroni, ma sempre capace di esprimere una battagliera classe dirigente locale. Vocata all’agricoltura, alla coltivazione, all’industria, capace di grandi picchi e di altrettanto grandi crisi. Dotta e ignorante, conservatrice e radicale, storicamente contrapposta a Cagliari, con cui alla fine ha perso la lotta per diventare punto di riferimento dell’Isola, ma comunque capace di giocare, nei secoli e anche nella storia recente, un ruolo da protagonista a livello regionale e nazionale. Città dai mille volti che ora affronta la sua ennesima sfida: la caccia a una nuova vocazione.
È davvero difficile raccontare in pillole la millenaria storia di Sassari, antica capitale del Giudicato di Torres, della repubblica sassarese e poi del Giudicato di Arborea, sede universitaria, arcivescovile, Libero Comune, confederato a Genova (dopo un primo periodo filo-pisano), a seguito della promulgazione degli Statuti Sassaresi nel 1294, uno dei documenti più importanti della storia della Sardegna. A provarci uno che alla storia e alle origini della sua città ha dedicato la vita: Antonello Mattone, già professore ordinario di Storia delle istituzioni politiche dell’Università di Sassari, direttore dal 2001 al 2010 del dipartimento di Storia, autore di decine di volumi e pubblicazioni scientifiche, curatore di monografie e saggi sulla storia medievale e moderna.
Quando nasce la Sassari che conosciamo oggi?
«Che ci fosse un villaggio si evince dal Condaghe di San Pietro di Silki, la tradizione è che la città nasce attorno al pozzo di Villa. Ma l’origine di Sassari si identifica col Comune nato su impulso di Pisa, che controllava l’economia della Sardegna Nord occidentale e in particolare del porto di Torres, nella seconda metà del XIII secolo. Un comune cresciuto all’improvviso, come una cittadina del far west, governato da un podestà ma con una rappresentativa classe dirigente locale molto promiscua, fatta da pisani, sardi, corsi. Che trova la sua espressione negli organi consiliari, soprattutto nel cosiddetto consiglio degli anziani».
Da qui deriva il sentimento di alterità che a volte hanno i sassaresi?
«Sicuramente i sassaresi sono una comunità composita. E lo stesso dialetto che si affermerà progressivamente, (le prime testimonianze ci vengono dai Gesuiti, quando nasce il collegio, che parlano di una lingua diverso dal sardo) nasce dalla fusione di sardo, italiano e corso e poi con contaminazioni catalane, spagnole, che si ritrovano in tanti termini ancora oggi usati. Tante influenze che “esplodono” con l’inurbamento dei villici verso la città, che si sviluppa perché la città rispetto al mondo rurale arretrato e su basi servili, rende liberi. E che cresceranno ancora quando Sassari diventerà punto di riferimento per l’istruzione, con il Collegio dei Gesuiti, le scuole e poi l’università».
Una oligarchia che rimarrà nei secoli?
«Sì. Sassari passa da Pisa a Genova, e da Genova alla Catalogna, perché le oligarchie sassaresi mandano una delegazione presso il re. Pensano che un re così lontano possa accentuare la loro autonomia rispetto a Genova, che aveva una forte pressione di tipo mercantile. Subito il nuovo dominio entra in conflitto con queste oligarchie, c’è una rivolta, repressa, nasce il Castello, che serve a controllare la città. Sarà poi sede del tribunale dell’Inquisizione, simbolo del dominio e per quello sarà abbattuto. Poi Sassari viene occupata dal giudice di Oristano nel 1376, e rimarrà fino al 1410 di fatto autonoma. Le oligarchie urbane diventeranno quelle che avranno le concessioni feudali e che coesisteranno con tutte le dominazioni successive».
Quali sono i punti di svolta della storia cittadina?
«Sono tre traumi. Il primo nel 1527 quando la città viene occupata per tre mesi dai francesi che penetrano facilmente nelle mura medievali non bastionate come quelle di Cagliari e Alghero. Dopo tornano gli spagnoli e, per le condizioni di vita degli abitanti, scoppia la peste. E ancora la grande peste del 1652 che arriva da Alghero, con un gesuita. Muore metà della popolazione. E infine il colera del 1855. Anche qui muore quasi il 40% della popolazione, le condizioni igieniche erano terribili, le città era chiusa dentro le mura, i morti si seppellivano nelle chiese, non c’erano fogne. In base alle teorie dell’epoca vengono demolite le mura e avviata l’espansione in due direzioni, verso Cagliari con via Roma e alle Conce, con il quartiere industriale. Sono momenti di “reset” in cui la città riparte, spesso con difficoltà, ed è costretta a ripensarsi».
Con la peste del 1652 si fa coincidere la “sconfitta” di Sassari nella storica rivalità con Cagliari.
«Sassari era entrata in quel periodo in una forte tensione municipalistica con Cagliari, alimentata dai Catalani che avevano scelto Cagliari come capitale del regno di Sardegna. Il tentativo di catalanizzazione della città di Sassari invece fallisce e la città, decimata dalla peste, questo finisce per pagarlo. Lo scontro ci fu, politico, culturale e religioso, con la famosa guerra dei “corpi santi”, la caccia ai resti di martiri da esibire per dimostrare che solo una delle due archidiocesi poteva fregiarsi della titolarità primaziale. Il punto vero è che però Cagliari era e resterà una città burocratico mercantile in cui si consumava tutto e non si produceva nulla. Sassari aveva una produzione agricola importante e anche manufatturiera, una caratteristica che durerà per tutto l’800 e ’900, fino a quando la vocazione di Sassari non entrò in crisi».
Si combatte anche per chi ebbe la prima università?
«Sassari ebbe, nel 1559, il primo Collegio dei Gesuiti, che poi diventò l’università. E anche le prime scuole nel 1562. Ed ebbe il privilegio papale che le consentiva di dare i gradi in teologia. Per avere medicina e giurisprudenza bisognerà aspettare il 1632. Cagliari avviò gli studi generali nel 1626. Quindi Sassari ebbe il primo Collegio dei Gesuiti e Cagliari la prima università. Ma in realtà poco cambia, di sicuro scuole e università attirarono a Sassari molti giovani dalla Sardegna settentrionale ma anche dalla parte bassa della Corsica, con questa componente che espresse importanti personaggi come l’arcivescovo Antonio Canopolo o Francesco De Vico. Presenza che scomparve nel momento in cui banco di San Giorgio di Genova, che era il proprietario dell'isola, la vendette alla Francia nel 1769».
L’università migliorò la qualità della classe dirigente?
«Non immediatamente. Anzi, l’università, gestita solo con professori locali, entrò in crisi. Tanto che una parte dell'edificio dell'università viene destinato a fabbrica del tabacco, attività peraltro rimasta attiva in città fino agli anni ’60 del ’900. Il suo rilancio avviene nel 1765, con la riforma Bogino fatta dai piemontesi, che lasciano nell’Isola le due sedi universitarie. Arrivano i professori piemontesi, crescono figure locali di altissimo livello. Ci si dedica allo studio delle risorse e delle potenzialità economiche della Sardegna. Nasce anche la sua grande tradizione nel campo medico».
Arriviamo agli anni della “Sarda rivoluzione”
«La cosiddetta crisi politica sarda iniziò a profilarsi nell’inverno 1792-93, quando la giovane Repubblica francese tentò di esportare nell’isola le conquiste della Rivoluzione, e giunse al suo epilogo nella tarda primavera del 1796, quando le armate napoleoniche dilagavano nell’Italia settentrionale e Vittorio Amedeo III era costretto a firmare l’armistizio di Cherasco. In sostanza il triennio rivoluzionario sardo si chiudeva alla vigilia della nuova stagione patriottica e repubblicana che stava per aprirsi nella penisola, con una precoce restaurazione, imposta dal governo viceregio attraverso un ribaltamento di alleanze e una convergenza tra moderati ed esponenti della feudalità. E, mentre a Cagliari si forma questa sorta di partito patriottico, che non guarda alla rivoluzione francese ma più a quella americana e per certi versi a quella corsa, che sfocia nell’insurrezione del 28 aprile 1794 che viene celebrata in sa Die de Sa Sardinia in cui tutti i piemontesi vengono cacciati, Sassari è la roccaforte della reazione feudale. Si sviluppano tutta una serie di vicende che culminano con l’invio di Giommaria Angioi quale alternos viceregio a Sassari, dove il 28 febbraio del 1796 fece il suo ingresso solenne con un migliaio di uomini a cavallo e un folto seguito di contadini: durante il lungo viaggio i consiglieri dei villaggi infeudati gli avevano consegnato petizioni e rimostranze contro i feudatari. Sconfitti i reazionari, l'Angioi diede il via ad una serie di riforme che tendevano a rinnovare molto più radicalmente la società sarda. Probabilmente l’alternos aveva sopravvalutato la forza d’urto del movimento dei villaggi confederati, per di più confidando in un intervento di mediazione francese che potesse costringere lo Stato sabaudo ad accettare le rivendicazioni del Regno ed il riscatto dei feudi. Ma il movimento angioiano venne schiacciato – è bene ricordarlo – dalle milizie “nazionali» inviate dalla Deputazione stamentaria e dal governo cagliaritano e non da truppe piemontesi”.
L’Ottocento è un momento di grande trasformazione economica?
«L’evento chiave è la “fusione perfetta” della Sardegna con gli stati sabaudi di terraferma. Con essa l’Isola rinunciava al suo Parlamento e con essa finiva il Regnum Sardiniae. A chiedere la fusione, che verrà decretata da Carlo Alberto, i ceti dirigenti più avanzati di Cagliari e di Sassari, con quella che più avanti gli stessi ceti definirono «un momento di pazzia collettiva». Nascono due prefetture, di Sassari e Cagliari. La reale udienza viene trasformata in corte d’appello, e la reale governazione di Sassari viene soppressa aprendo un lungo contenzioso che dura tutt’ora. Viene introdotto il sistema metrico decimale. E arriva la subordinazione della Sardegna al capitale. Più che piemontese a quello ligure. Con l’Isola che sperimenta un forte centralismo che spazza via ogni forma di rappresentanza. A Sassari arriva il colera e la sua trasformazione urbanistica, con la città che per l’ennesima volta divora se stessa. Nascono i primi opifici, le conce, i mulini. È un momento di crescita e grande energia».
Arriviamo al novecento.
«Anche qui Sassari e Cagliari sono su poli opposti. Cagliari, che ha un grande uomo politico come Francesco Cocco Ortu, ed è governativa, anche se non conservatrice. Sassari è radicale. Ha l’esperienza della giunta dell’Unione Popolare, sindaco Satta Branca, poi Filippo Garavetti, Enrico Berlinguer senior, acquisiscono la Nuova Sardegna. È un momento di sviluppo. Arriva l’illuminazione a gas, l’acquedotto, la ferrovia, la costruzione della scuola elementare a San Donato, attività di tipo sociale contro l’analfabetismo, il mutuo soccorso. Sassari è una città moderna. Questa esperienza finisce con la prima guerra mondiale, anche perché la maggior parte di questo gruppo era interventista. Durante il ventennio c’è una sorta di continuità tra la vecchia classe dirigente liberale e il fascismo. Però c’è anche un ricambio con una ulteriore modernizzazione della città, con la nascita ad esempio di un quartiere popolare come Monte Rosello collegato col ponte. E un quartiere residenziale come Porcellana. Poi le bonifiche ferraresi, primo nucleo della riforma agraria che verrà portata avanti da Segni con la colonizzazione della Nurra».
Cosa cambia dopo il fascismo?
«Nel secondo dopoguerra c’è ancora continuità. Con l’emersione della Democrazia Cristiana, un partito di notabili in parte erede del partito fascista. La svolta è la rivoluzione dei giovani turchi di Cossiga, Soddu, Giagu, Dettori, una classe di “accuditi”. E questa sarà la vera classe dirigente del dopoguerra. Che governa la Regione. La contraddizione è che, mentre c’è un livello alto del livello regionale c’è un livello mediocre di quello comunale. Si passa da Pieroni a Montresori, per il resto ci sono tutta una serie di mezze figure. Cagliari è stata bombardata dagli alleati, Sassari viene bombardata dalle scelte urbanistiche di chi la governa. E così, mentre Cagliari con una politica illuminata risana il suo centro storico, noi abbiamo preferito sviluppare la città a Monte Bianchinu e Sant'Orsola, facendo definitivamente marcire il nostro cuore antico. Purtroppo ora ne paghiamo il prezzo».
E ora?
«Sassari ha vissuto alterne fortune, ma sicuramente è stata protagonista nella politica, nel mondo bancario, nella cultura. C’è stata la “svolta industriale” che molto ancora fa discutere, ma anche quello è un capitolo chiuso. Quello che appare certo è che una città dalla così lunga storia è chiamata per l’ennesima volta a ritrovare la sua vocazione».
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