Patrick Zaki: «Ho vissuto un’esperienza terribile, ma essere attivista è la mia vocazione»
Il giovane in Sardegna per presentare il suo libro: «Questi tour mi danno speranza»
Sassari Patrick Zaki, suo malgrado, è diventato un simbolo della difesa dei diritti umani. Il suo arresto, la detenzione e ancora di più le torture subite nelle carceri egiziane lo hanno trasformato in una icona di libertà e resistenza. In questi giorni Zaki è in Sardegna per raccontare in prima persona la sua battaglia attraverso la presentazione del suo libro, “Sogni e illusioni di libertà. La mia storia”. Ieri era a Iglesias al festival Liberevento, oggi alle 18.30 sarà a Ghilarza al festival Propagazioni, il 25 alle 21 sarà ad Alghero per Genera, il 26 alle 22 chiuderà il suo tour sardo a Saccargia ospite di Liquida.
Patrick, “Sogni e illusioni di libertà” è un libro che non avrebbe mai voluto scrivere. Cosa prova quando ripensa quel 7 febbraio 2020?
«Provo sentimenti contrastanti perché quel giorno ero pieno di ansia, stress e paura, ma poi quando penso a quanta strada ho fatto da quel giorno e a quanto sono stato fortunato a essere circondato da persone che mi amano e mi sono rimaste accanto, mi sento che la vita ha svolte inaspettate. Questa esperienza ha portato tanto dolore a me e alla mia famiglia, ma mi ha anche insegnato ad apprezzare ogni piccola cosa, ed è per questo che mi sento fortunato di poter scrivere un riassunto che non avrei mai voluto scrivere».
Quando è entrato in carcere ha capito subito che per lei era solo l’inizio di un lungo incubo oppure pensava che si sarebbe risolto in breve tempo?
«Sono un difensore dei diritti umani, ho lavorato su decine di casi come il mio e avevo memorizzato questo scenario con l’esatta sequenza degli eventi. Sicuramente sapevo che una volta iniziato sarebbe stato molto difficile che finisse. Naturalmente ci sono stati momenti in cui respingevo questa ipotesi, quando dicevo che forse sarebbe stato diverso, che forse mi avrebbero lasciato andare presto. Ma conosco la realtà della prigionia politica e quindi mi sono sempre preparato al peggio».
Ventidue mesi di cella in condizioni disumane. Come si fa a superare ciò che ha vissuto?
«Mentirei se dicessi che è stato facile, basta poco per ricordarmi la prigione. Tuttavia, ho deciso di voler risarcire me stesso e i miei cari per questi 22 mesi, cercando di rimanere produttivo, di lavorare di più e di godermi ogni minuto con i miei amici e la mia famiglia».
In quei lunghi mesi chi o cosa le ha dato la forza di resistere?
«Come dico sempre, ci sono 60mila prigionieri politici in Egitto, solo pochissimi di loro hanno avuto la fortuna di avere tanti sostenitori quanti ne ho avuto io e una campagna come la mia. Ho sempre saputo che con il sostegno delle persone che lavoravano al mio caso e con l’amore della mia famiglia e dei miei amici ce la avrei fatta e ho dovuto resistere anche per loro».
La sua vicenda si è conclusa con una condanna a 3 anni e poi con l’indulto. Che ruolo ha avuto l’Italia nel raggiungere questo epilogo?
«Il popolo italiano mi è stato di grande aiuto fin dal primo giorno e fino al mio ritorno in Italia. Il loro sincero sostegno e la loro solidarietà hanno spinto diplomatici, governi e istituzioni internazionali a lavorare sul mio caso e a chiedere il mio rilascio. Senza il duro lavoro del popolo italiano, questa esperienza e il modo in cui si è svolta sarebbero stati diversi».
Oggi è un anno esatto dal suo ritorno in Italia. Cosa sono stati per lei questi 12 mesi?
«È stato assolutamente incredibile, mi sono sentito veramente libero solo quando ho preso l’aereo per tornare in Italia. Ho avuto la possibilità di rivedere amici che non vedevo da anni, ho visitato città che avevo sognato di visitare durante la mia prigionia e ho avuto modo di usare la mia voce per difendere i diritti umani in una maniera differente».
In questi anni non ha mai pensato: forse è meglio che la smetta con l’attivismo...
«Ovviamente questo consiglio mi è stato dato da diverse persone, ma non posso farlo. Certamente comprendo e accetto la decisione di qualsiasi ex prigioniero di coscienza di smettere di essere un attivista perché ha pagato la sua parte ed è stato sufficientemente oppresso. Ma questa è la mia vocazione e, dopo aver vissuto questa esperienza, mi è diventato chiaro che non posso fermare il mio attivismo finché ci sono persone oppresse in qualsiasi parte del mondo, non solo in Egitto».
Cosa la incuriosisce di questo tour a più tappe in Sardegna?
«Andrò in ogni città, paese o villaggio che chiederà la mia presenza. Ho un’enorme gratitudine per ogni persona che ha seguito le mie notizie o ha condiviso un post sul mio caso. Ogni volta che incontro nuove persone in un’altra regione d’Italia, raccolgo un pezzo mancante del puzzle, capisco meglio perché e come sono stato rilasciato. Questi tour mi danno speranza, forza e fiducia per andare avanti».