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Canapa light, aziende sul lastrico: «Sequestri e controlli ci uccidono»

di Luigi Soriga
Canapa light, aziende sul lastrico: «Sequestri e controlli ci uccidono»

Coltivazioni nel mirino delle Procure sarde: su 500 imprese ne sono sopravvissute 50. Simone Nieddu, 33 anni, di Oristano: «Merce ferma da 4 mesi, un disastro»

31 luglio 2024
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Sassari In Europa la coltivazione della canapa sativa, cioè quella dai poteri medicinali e non da sballo, è un business in crescita esponenziale. In Sardegna, ovvero nel paradiso delle piantagioni, la terra e il clima perfetto, da 500 aziende nate tre anni fa ne sono sopravvissute forse 50. Tre i principali fattori avversi: il ragnetto rosso che divora le foglie, gli afidi che prosciugano la linfa, e le procure che azzerano i fatturati. Quest’ultima è l’incognita più temuta dagli imprenditori perché al momento non esistono difese: un sequestro è capace infatti di metterli in ginocchio.

«Da quattro mesi ho 600 chili di merce ferma, che in soldi significano circa 300mila euro persi. Per la mia attività è un disastro, e lo è anche per i dieci dipendenti che dovrò mandare a casa». Simone Nieddu ha 33 anni, è nato e cresciuto a Silanus, ha provato la carriera di odontotecnico e dopo un rodaggio di precariato e sfruttamento ha fatto le valigie e si è trasferito a Londra. «C’era il boom degli shop di cannabis light, ho pensato che poteva essere un’occasione per un’inversione di marcia e ritornare a casa».

Con un suo amico di 24 anni decide di investire i risparmi per riqualificare a Oristano una vecchia serra di pomodori: «Con 40mila euro l’abbiamo riconvertita per la coltivazione di canapa sativa». Nel 2021 nasce Vidahemp, un piccolo gioiello tecnologico: «Capannone da 500 mq, 1000 piante in vaso, sementi selezionati per avere un cbd (sostanza curativa) alto e un thc (fattore sballo) bassissimo, terra, concime, ventole, quattro torri per essiccare, temperatura costante, umidità controllata. Tutto ordinato e pulitissimo. Con fatture e documentazione puntuale, massima trasparenza su ogni acquisto e vendita, uno storico dettagliato. Non a caso siamo una delle pochissime aziende che ha ottenuto la certificazione Ruop, cioè l’inserimento nel registro ufficiale operatori professionali. È un attestato di affidabilità, siamo un vivaio autorizzato e certificato dalla Regione».

Le spese e i sacrifici sono tanti, ma i margini di guadagno sono altissimi: «Un chilo di canapa frutta dai 300 ai 500 euro, ma se hai i giusti canali di vendita, e io in tre anni li ho costruiti, puoi anche piazzarlo a 800. In un anno si produce anche 500 kg di merce, basta fare una moltiplicazione per capire i potenziali fatturati». Sembrerebbe il business perfetto, se non fosse che l’azienda l’ottobre scorso riceve prima la visita dei Cacciatori di Sardegna e poi quella dei carabinieri. «Eravamo nella fase di essiccazione delle piante. Vengono messi i sigilli, i ris di Cagliari eseguono un primo campionamento e trovano un valore di thc di 0,22, ben sotto la soglia di legge dello 0,60. Vista la tipologia di azienda, considerate le semenze, dovrebbe essere già chiaro che siamo nell’ambito della canapa legale, e non della droga».

Il 6 novembre viene disposto un secondo esame, su un campione più ampio: «Anche questa volta il valore di thc è 0,38, pienamente dentro i parametri. Anche i ris, nella relazione, scrivono: canapa da fibra». Ma il magistrato convalida ugualmente il sequestro. E il motivo è uno solo: l’infiorescenza, cioè quella che in Sardegna viene considerata “il frutto proibito”. Spiega l’avvocato Lorenzo Simonetti: «In sostanza la parola infiorescenza non viene menzionata nelle destinazioni delle legge 242. La canapa si può coltivare ma nel momento in cui l’agricoltore la “sbocciola”, cioè separa il fiore dal gambo, sta contravvenendo alla norma».

Su questo passaggio le procure sarde, in particolare a quella di Oristano, storcono il naso. «In verità questa procedura rientra nelle attività previste per la floricoltura, subcategoria del florivivaismo menzionata nella legge, che consente la lavorazione dei fiori recisi secchi. Per non avere alcun problema con la giustizia, tu venditore dovresti però sottoscrivere un contratto con l’acquirente che specifichi la destinazione della merce. È come se uno che coltiva nocciole, si dovesse legare per forza alla Nutella Ferrero, e non scegliere il compratore più conveniente».

Altro problema grave: «I sequestri nelle aziende sfociano nel penale: il thc non viene calcolato a grammo, ma sull’intero quantitativo. Nel mio caso la media di thc sui campioni analizzata è stata 0,35, ma moltiplicata per 600 kg sequestrati fanno circa 2 kg di thc».

Siamo a livelli di narcotrafficanti. «Mi sembra assurdo passare per un delinquente – dice Simone Nieddu – io ho la fedina immacolata, la mia azienda è seria, sto buttando via 4 anni della mia vita. Perché sequestrare le piante per mesi significa perdere produzione e clienti. I tempi dei controlli sono insostenibili. Ci ammazzano. Dovremmo essere innocenti fino a prova contraria, e intanto che queste prove vengono prodotte, si muore lentamente. Una possibile soluzione sarebbe fare dei test rapidi per conoscere subito i livelli del thc, e siamo disposti a farci carico delle spese. Questo permetterebbe di avere riscontri immediati. A Nuoro l’approccio della Procura è stato diverso: hanno sequestrato dei pacchi pieni di infiorescenze, hanno controllato il thc, tutto era in regola, hanno restituito la merce. Perché non c’è una linea univoca? Stiamo provando a fare impresa, senza alcun sussidio, ma solo con le nostre forze e spirito di crescita. Perché tagliare le gambe a tanti giovani imprenditori?».

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