La Nuova Sardegna

La storia

Un’infermiera sarda tra le guerre: «Se c’è bisogno di te, parti e basta»

di Massimo Sechi
Un’infermiera sarda tra le guerre: «Se c’è bisogno di te, parti e basta»

Gianna Falchetto, di Orotelli, è appena rientrata da una missione in Libano

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Sassari C’è chi, comprensibilmente, fugge da una guerra e chi invece decide di andare proprio dove c’è un conflitto, dedicando la propria vita e il proprio lavoro a chi è in difficoltà. Gianna Falchetto, 36 anni di Orotelli, dal 2016 ha compiuto una scelta che molti immaginano di fare ma pochi concretamente realizzano. Ha iniziato con un percorso formativo da infermiera, arricchito con lo studio dell’inglese e del francese e ha acquisito le competenze necessarie per mettersi a disposizione di associazioni umanitarie come Medici Senza Frontiere. Da poco rientrata da una missione in Libano, racconta la sua esperienza. «Abbiamo avviato un nuovo progetto in una zona con molti rifugiati -spiega- libanesi costretti a spostarsi a causa della guerra, che ora vivono in chiese o scuole. Abbiamo allestito una clinica medica, e il mio ruolo di medical team leader prevede il coordinamento di tutte le attività sanitarie: dalla composizione dello staff all’acquisto dei materiali necessari».

Perché hai deciso di intraprendere questa strada?

«È un’attività che mi ha sempre interessato e ho fatto di tutto per poterla esercitare, anche se significa vivere per quasi tutto l’anno lontano da casa. Credo che sia giusto aiutarsi: mi farebbe piacere sapere che, se un giorno ci trovassimo in difficoltà, qualcuno sarebbe pronto a venirci in soccorso».

Non solo lontano, ma in luoghi pericolosi.

«Sì, ma è una cosa a cui non pensi. So bene il tipo di pericolo che può esserci, ma vado perché scelgo di andarci. Quando c’è bisogno di te, non stai a valutare altro. La mia famiglia e i miei amici mi hanno sempre supportato, sono consapevoli che per me è giusto andare dove serve».

Perché sostenere realtà come Medici senza Frontiere?

«Perché vivono e operano grazie alle donazioni delle persone e hanno un sistema trasparente che consente di avere tutte le informazioni sulla destinazione dei fondi. Le donazioni sono fondamentali non solo per curare le persone, ma anche per acquistare le materie prime necessarie in zone di conflitto».

In quali luoghi sei stata?

«La mia prima missione è stata nel Kurdistan iracheno, tra Sulaymaniyya e Kalar, dove abbiamo gestito cliniche per rifugiati siriani, iracheni e yazidi. Poi Sierra Leone – un Paese con la più alta mortalità infantile tra i più poveri al mondo – Afghanistan, per oltre un anno, Camerun in piena guerra civile, Haiti e un anno sulla Geo Barents, la nave di Medici Senza Frontiere che si occupa di soccorso nel Mediterraneo. E poi Gaza, dove tra l’altro sto per tornare».

C’è una storia che ti ha colpito più delle altre?

«No, dovrei dire tutte. Abbiamo sempre a che fare con situazioni estreme: famiglie intere costrette a fuggire, che non hanno più nulla e che prima vivevano normalmente. Le guerre purtroppo non finiscono mai: quando una termina, ne inizia subito un’altra. Il soccorso in mare è stata un’esperienza emotivamente fortissima. Vedere nel buio gommoni pieni di bambini, neonati, persone che rischiano di morire e provengono da luoghi dove sono state torturate per mesi, non è stato facile».

Le tue “vacanze” sono quindi tornare in famiglia in Sardegna?

«Diciamo di sì. Abbiamo delle ferie, ma dipende sempre dal tipo di missione. Dopo l’Afghanistan, ad esempio, ho avuto bisogno di fermarmi un po’perché è stata un’esperienza molto lunga e intensa».

Qual è la soddisfazione più grande?

«Il contatto umano: il legame che si crea con le persone che incontro e con cui lavoro. Scegliere una singola emozione è impossibile».

C’è qualcosa che ancora non hai fatto e vorresti fare?

«Credo di aver fatto quasi tutto. Quello che desidero veramente è continuare a fare esattamente quello che sto facendo».


 

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