Stefano Bonaccini: «Pd, non è tempo di congressi. Ventotene? Parole vergognose»
L’europarlamentare e presidente del Pd: «Nessuno sgambetto a Elly. Uniti contro Meloni. Il mio voto a Bruxelles? Non c’è stata nessuna frattura nel partito come viene raccontato»
«Le parole di Meloni su Ventotene? Vergognose». E poi: «Il congresso del Pd? Meglio occuparci dei problemi dei cittadini». E ancora: «Il mio voto in Europa? Nessuno sgambetto a Elly». E infine: «Ipotesi elezioni anticipate? Il governo ha ancora consenso, ma penso si possa battere. Come già avvenuto in passato». I venti di burrasca interni al Pd sembrano per il momento accantonati. Ma lo scontro politico con il centrodestra, complice anche le recenti dichiarazioni di Giorgia Meloni su Ventotene, sembra più acceso che mai. Ne è consapevole anche l’ex presidente della Regione Emilia-Romagna, attuale europarlamentare e presidente del Pd, Stefano Bonaccini, che fra la via Emilia e Bruxelles lancia una suggestione ai dem: rispolverare le primarie per scegliere i candidati Pd nel caso in cui la nuova legge elettorale – sulla quale in casa centrodestra sono già al lavoro – non includerà le preferenze.
Bonaccini, si aspettava questa uscita su Ventotene?
Sono state parole vergognose. Il richiamo della foresta da cui proviene ogni tanto ricompare, purtroppo è non fa bene a lei e nemmeno al nostro Paese visto il ruolo che ricopre. Ogni volta che entro al Parlamento Europeo a Bruxelles alzo lo sguardo e leggo il nome di Altiero Spinelli, che campeggiano sull’ingresso. Penso sempre sia stato un gigante, lui come Ernesto Rossi, che nel 1941 mentre si trovavano al confino come oppositori del regime fascista, scrissero quel Manifesto “Per una Europa libera e unita”, mai come oggi ancora attuale, visti i tanti – da Trump a Putin, da Orban ai neonazisti tedeschi di Afd – che vorrebbero una Europa irrilevante e divisa. Pensavano ad una Europa libera dalla follia nazifascista e unita nel ripristinare valori quali libertà, pace e democrazia. Se Meloni ha potuto dire quelle stupidaggini dallo scranno più importante del Parlamento italiano è perché ci furono uomini e donne che sacrificarono la loro vita o si batterono mettendola a rischio per restituirci, da 80 anni ormai, la possibilità di vivere in pace e in democrazia».
L’industria italiana soffre, ma sui dazi di Trump sembra che il governo abbia una linea morbida. Come mai?
«Soffre anche perché questo governo non ha messo in campo alcuna politica industriale degna di questo nome. E la produzione industriale è crollata di oltre tre punti anno su anno. Sui dazi, se Meloni pensa di cavarsela con l’amicizia verso Trump o Musk denoterebbe una sudditanza molto preoccupante. Peraltro il Governo Meloni dovrebbe sapere che eventuali dazi colpirebbero soprattutto l’Italia, seconda manifattura d’Europa, e io aggiungo l’Emilia-Romagna prima regione italiana per export pro-capite. Il surplus commerciale tra Usa e Italia è di poco meno di quaranta miliardi di euro a nostro favore: esportiamo prodotti di tale qualità che sono molto apprezzati dall’altra sponda dell’Atlantico. Se l’Italia pensa di cavarsela da sola, peraltro, non risolverebbe granché anche perché dazi applicati ad esempio a Germania e Francia, primi due mercati del nostro export, farebbero male inevitabilmente anche a noi. Per questo serve che l’Ue reagisca unita, e non ognuno per conto proprio, per evitare di rimanere schiacciata tra Usa e Cina. Anche perché Trump sottovaluta l’impennata che potrà avere l’inflazione nel suo Paese, peraltro preoccupato per l’enorme mole del proprio debito pubblico».
Crede che il Pd, di fronte a posizioni del genere, debba avere una spinta più europeista?
Assolutamente sì, ma il Pd le assicuro che è convintamente europeista, che non significa non vedere anche i difetti di questa Unione, ma proprio per questo darci da fare e lavorare assiduamente per renderla più forte e unita da politiche comuni, comprese difesa e politica estera. Altrimenti, a fronte di una Europa debole e divisa, l’unico dubbio rimarrebbe di chi diventare sudditi».
Un “merito” Meloni lo ha avuto: aver compattato il Pd, reduce dalla faticosa sintesi sulla risoluzione in Parlamento. C’è chi dice che Schlein abbia forzato comunque la mano. È ancora necessario un chiarimento?
«Il voto unitario e unanime dei gruppi del Pd al Senato e alla Camera è la dimostrazione plastica che le posizioni non erano distanti come raccontato. E che la volontà condivisa da tutti è costruire una difesa comune, ma non il riarmo dei singoli stati».
Lei però ha votato a favore del ReArm. Uno sgambetto alla segretaria o un assist per non isolarla dai socialisti europei?
«Dopo le primarie che elessero segretaria Schlein penso di aver ben dimostrato cosa significhi per me garantire unità e dimostrare lealtà ad Elly. Avevo vinto tra gli iscritti e perduto, seppur di poco, tra gli elettori delle primarie aperte. Proprio per questo ho sentito il dovere, in questi due anni, di lavorare assieme ad Elly per tenere unito il Pd, memori delle troppe divisioni del passato. Quindi nessuna volontà di sgambetti, ma solo la convinzione che fosse giusto votare sì, in linea con la quasi totalità dei miei colleghi del gruppo dei Socialisti e Democratici. Peraltro che non vi fosse alcuna frattura sostanziale si è visto, come ero convinto avvenisse, nel voto unitario del Pd nei due rami del Parlamento italiano: la direzione di marcia condivisa da tutti nel Pd è arrivare a una difesa comune europea e non al riarmo dei singoli 27 Paesi membri, che non risolverebbe alcunché e non ci farebbe stare più sicuri. L’ha detto molto bene Romano Prodi: il piano appena approvato è un primo passo per arrivare ad una difesa comune, visto che Trump tenderà a chiudere l’ombrello americano, dunque non vi è dissonanza tra l’impegno primario per la pace e la costruzione di una difesa comune».
Da giorni però si parla di congresso lampo o tematico. È necessario? O sarebbe un harakiri in vista delle tornate elettorali di maggio e giugno?
«Io penso che invece di chiuderci a svolgere un ennesimo congresso, che inevitabilmente porterebbe ad occuparci di noi, sia meglio occuparci dei problemi dei cittadini, delle famiglie e delle imprese del nostro Paese, che nella maggioranza dei casi non stanno meglio di quando Giorgia Meloni diventò presidente del consiglio, due anni e mezzo fa. E per quanto riguarda l’Europa, occuparci di una Europa che elimini il diritto di veto, sappia costruire politiche comuni e far ripartire la crescita sostenibile facendo ricorso, come indica l’ottimo rapporto Draghi, ad investimenti per 7-800 miliardi di euro l’anno – anche ricorrendo a debito comune –, per una Europa competitiva e non schiacciata tra vecchie e nuove potenze. Nel mentre, tra maggio e l’autunno, consiglierei di dedicarci per bene ad importantissime elezioni amministrative e regionali, che saranno anche un test politico, non solo locale. Queste per me sono le priorità, altroché il congresso».
Prima che Meloni scombinasse il dibattito, anche il centrodestra sul tema riarmo è parso diviso. E le prossime tornate elettorali, in particolare in Veneto, potrebbero provocare un’ulteriore frattura fra Lega e FdI. Si arriverà a fine legislatura o si andrà al voto anticipato?
«Giorgia Meloni e la destra hanno ancora consenso e insediamento sociale, ma si possono battere, come abbiamo dimostrato lo scorso anno alle Comunali nella maggioranza delle città e nelle bellissime recenti vittorie in Umbria ed Emilia-Romagna. In tutti questi casi, così come avverrà a maggio a Genova o Ravenna, il centrosinistra sì è presentato largo, plurale e civico, ma soprattutto unito. E anche per queste ragioni ha vinto, oltre ad aver scommesso su ottimi candidate e candidati. Mi auguro dunque che anche alle prossime regionali, che coinvolgeranno ben sei regioni ci si possa presentare uniti. Sulle Politiche io sono convinto si terranno nel 2027, a scadenza naturale. Un eventuale anticipo significherebbe che il governo interrompe anzitempo la legislatura, dunque un fallimento. Tra due anni la maggioranza degli italiani non starà meglio di oggi, perché la crescita economica nei prossimi tre anni sarà bassissima, molto inferiore alle sballate previsioni del governo; il potere d’acquisto dei salari non salirà, tra benzina e bollette arrivate ai massimi smentendo le promesse roboanti di Meloni e Salvini; il sistema sanitario nazionale peggiora di giorno in giorno visto che questa destra spinge sul privato e smantella la sanità pubblica. Ecco allora che serve prepararci ad essere “alternativa”, che significa non solo essere contro gli altri, ma avere una idea di Paese e di società, dunque un programma condiviso per fare dell’Italia un Paese più giusto e competitivo».
Ma il Pd sarebbe pronto? E il centrosinistra? In Parlamento M5S, Avs, Azione e IV hanno tutti presentato una propria risoluzione. Addio campo largo?
«Il Pd da solo è evidente che non può farcela a vincere, ma la matematica prima della politica dice che senza il Pd qualsiasi alternativa per battere le destre non esiste. Io mi auguro che tutti coloro che si definiscono alternativi a Meloni e questo governo mettano da parte egoismi e sentano il dovere di unirsi. Anche perché se vogliamo lasciare Meloni al governo i prossimi anni senza nemmeno fare campagna elettorale basta comportarsi come nel 2022, con la destra – quanto la invidio in questo – che come sempre seppe unirsi al momento del voto, e il centrosinistra diviso addirittura in tre parti. Non ci è bastata quella lezione? Allora io dico diamoci da fare e cominciamo a lavorare per costruire un nuovo centrosinistra che tenga assieme forze progressiste e riformiste, ma anche quelle moderate. L’unità non è condizione sufficiente per vincere, ma è condizione necessaria».
Dalle parti del centrodestra sono già al lavoro per una legge elettorale a trazione proporzionale. Se non dovessero essere reintrodotte le preferenze, lei proporrebbe di fare le primarie per la scelta di candidati e candidate del Pd nei territori?
Non si capisce perché per essere eletti al Parlamento europeo, così come nei consigli regionali e comunali, ci si debba sottoporre giustamente alla scelta degli elettori, mentre solo per le elezioni in Parlamento c’è una legge elettorale che toglie ogni possibilità di scelta ai cittadini. Quindi se non verranno reintrodotte le preferenze, io penso che il Pd per una buona parte de propri candidati e delle proprie candidate dovrebbe fare le primarie come facemmo quando era segretario Bersani nel dicembre 2012, quando parteciparono addirittura un milione di nostri iscritti ed elettori per dare ai territori la possibilità di scelta e non far decidere solo i gruppi dirigenti a livello centrale».