La Nuova Sardegna

Società frenetica

La paura molto moderna di pensare troppo

di Gian Marco Roffia*
La paura molto moderna di pensare troppo

Il lato positivo della solitudine, ma non appena ci troviamo soli possiamo fuggire dalla riflessione con un clic

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Evitiamo di pensare troppo. Il sonetto “Solo et Pensoso” di Petrarca ha ormai perso il suo significato originale: ricercare la solitudine per perdersi nella riflessione è ormai anacronistico; una pausa per riflettere è vista come una perdita di tempo, non come un momento impiegato per la buona causa dell’introspezione. Se prima gli aggettivi “solo e pensoso” potevano essere quasi interscambiabili, in quanto i pensieri rappresentavano la sola compagnia disponibile, ora possiamo essere soli e contemporaneamente attutire le elucubrazioni con dei “deserti tascabili”. In passato, per schiarirsi le idee, l’uomo doveva ricorrere all’allontanamento fisico dalla società, rifugiarsi in campi lontani che fungevano da schermo dall’umanità, nell’infinito sublime oltre la siepe leopardiana; oggi l’isolamento è invece immediato: non appena ci ritroviamo soli possiamo fuggire dalla riflessione semplicemente pigiando un tasto, erigendo attorno a noi un deserto virtuale e ignorando i pensieri grazie a stimoli continui.

Già Bradbury nel suo magnum opus Fahrenheit 451 aveva previsto l’avvento degli auricolari, quando descriveva l’abitudine di Mildred, moglie del protagonista, di estraniarsi da ciò che la circondava ricorrendo a delle “conchiglie” che le inondavano le orecchie di musica e parole. Anche noi cerchiamo di neutralizzare la solitudine con uno stile di vita caotico, percependo le pause come qualcosa di terribile. Ci serviamo di una produttività esagerata per non essere assaliti da pensieri indesiderati, maggiore è la mole di impegni che abbiamo e più possiamo stare tranquilli. Al giorno d’oggi la solitudine non è mai vista come scelta: una decisione che diverge dalla volontà di coniugarsi o di creare una famiglia è ritenuta incomprensibile.

Jude St Francis, protagonista del romanzo del 2015 Una vita come tante, non si capacità di come, per un adulto, la scelta di essere scapolo non esista, del muto accordo comune nel ritenere il matrimonio l’unica via disponibile. Anche nella lingua italiana, la parola “solo” significa allo stesso tempo sia “singolo” che “soggetto alla solitudine”, obbligandoci ad accettare inconsciamente il nesso solo- infelice; l’inglese invece distingue chiaramente questi concetti con le parole alone e lonely; esiste inoltre la locuzione by yourself, che indica la volontà di compiere qualcosa con la nostra stessa compagnia. Eppure proprio dall’Inghilterra arriva un libro che demonizza profondamente la solitudine: Frankenstein, 1818. Il mostro non riesce ad accettare il suo aspetto, questo non per motivi puramente estetici, ma perché ripugna gli altri, condannandolo all’isolamento. L’unico desiderio che porge al suo creatore è quello di una compagna, che viene rifiutato, pertanto la creatura decide di punire Frankenstein ripagandolo con la sua stessa moneta, facendolo piombare ella solitudine a sua volta. Persiste questa visione negativa, e causa danni ingenti: i rapporti interpersonali sono deboli e si incrinano facilmente per problemi di comunicazione, perché i più non comunicano neanche con loro stessi. Telefono, lavoro, auricolari, hobby, computer, social. Questa catena ci risparmia il silenzio assordante popolato dai nostri pensieri, la sana noia altrimenti impiegata per il dialogo interiore e l’introspezione. In questa società frenetica occorre sapersi fermare ogni tanto, interrogarsi e imparare a guardarsi dentro, per poter guardare più lontano domani.

*Gian Marco è uno studente del liceo classico, musicale, coreutico “D.A.Azuni” di Sassari

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