Alvaro Vitali: «Vorrei fare il mafioso ma per tutti sono sempre Pierino»
L’attore si racconta: Fellini, il successo, la depressione
Nell’immaginario collettivo lui è per tutti Pierino. Quello è il ruolo che gli ha dato la popolarità. Eppure nel suo curriculum ci sono Fellini, Risi, Magni, Sordi, addirittura Polanski. Ma non gli basta per scrollarsi di dosso il ruolo del ragazzino pestifero delle barzellette. In questi giorni Alvaro Vitali è in Sardegna, a Ploaghe, per presentare “Buon lavoro”, il film di Marco Demurtas del cui cast fa parte insieme, tra gli altri, a Franco Nero, Giancarlo Giannini, Giuliana De Sio e Pippo Franco.
Vitali, che esperienza è stata “Buon lavoro”?
«Molto carina, ero circondato da giovani. Mi sono divertito, anche perché ho fatto una nonnina, finalmente un ruolo diverso dai miei soliti personaggi».
Primo film in Sardegna?
«Nell’isola avevo fatto tanti spettacoli, ma mai un film».
A scoprirla fu Fellini: come avvenne il vostro incontro?
«Fu casuale. Federico cercava un ragazzino piccolino di statura, magrolino. Il capogruppo era venuto a Trastevere in un negozio in cui facevo l’elettricista e mi vide. Io non sapevo neanche chi fosse Fellini, non ero mai uscito dal quartiere. Andai a fare il provino a Cinecittà, nel mitico Studio 5. Entrai e vidi una scala, una macchina da presa, un cappello e una sciarpa. Avevo la luce in faccia, non vedevo di più. Eravamo io e un altro ragazzetto di Napoli. Sentii una vocina che disse (imita la voce di Fellini, ndr): “chi di voi due sa farmi il fischio del merlo?”. Io lo feci alla pecorara e Federico: “prendete lui che l’altro ancora cerca il merlo”».
Dopo “Satyricon” arrivano “I clowns”, “Roma”, “Amarcord”: com’era Fellini?
«Aveva due teste. Una era normale, l’altra un computer in cui aveva dentro uno scaffale di roba. Ricordava a memoria le sceneggiature come i nomi di tutte le comparse. Ogni mattina si lisciava i capelli e diceva: “Alvarino, dove eravamo rimasti?”. E ripartiva senza leggere nulla».
Sul set è stato diretto da alcuni dei più grandi. Addirittura Roman Polanski.
«Venne a Roma per “Che?” e cercava un attore felliniano. Il mio agente mi mandò da lui. Facevo una piccola cosa: dipingevo una stanza di blu, Sydne Rome si chinava e le pitturavo tutta la gamba. Con Polanski trascorsi una giornata straordinaria: mi parlava di Fellini e voleva conoscerlo, era il suo mito».
A metà degli anni Settanta diventa uno dei protagonisti delle cosiddette commedie sexy: quanti film girava?
«Avevo un contratto per 5 all’anno. Ma purtroppo negli anni Settanta non si guadagnava molto: ti pagavano a mensile».
La commedia di quegli anni era bistrattata dalla critica: si sentiva un attore di serie B?
«Mai. Perché i nostri film facevano soldi. Di serie B sono quei film che guadagnano poco e li tolgono subito dalla sala. Noi ne facevamo tantissimi, più degli stranieri. Quando la squadra di serie B vince tutte le partite va in serie A, ma purtroppo ci classificavano sempre così, anche se ora ci hanno rivalutati».
Tra infermiere, insegnanti e soldatesse preferiva Edwige Fenech o Gloria Guida?
«Due amiche meravigliose, straordinarie. Con la Fenech ho fatto molti più film. Con Gloria la serie della liceale: la ricordo molto timida. Veniva da Bologna, non faceva l’attrice e si trovò in un mondo che non conosceva. Io ho cercato di aiutarla e siamo diventati molto amici».
Come nacque Pierino?
«Era l’ultimo film della serie dei 5, non sapevano che fare. Il regista Marino Girolami pensò a Pierino. “Lo conosciamo da tanti anni, sappiamo che racconta barzellette, marina la scuola: dobbiamo dargli un corpo”. Scrissero la sceneggiatura, io lo girai ma non mi piaceva. Ma quando uscì il produttore Luciano Martino mi disse: “Alvà, hai sfonnato”. A Ravenna avevano sfasciato un cinema per entrare, incassi mai visti: ero l’uomo più felice del mondo».
Pierino è stata una prigione?
«Lo è tuttora. Per lui provo amore e odio. Lo amo perché mi ha fatto conoscere in tutto il mondo: dalla Spagna alla Cina. Lo odio perché dopo non mi hanno fatto fare più ruoli importanti: vorrei fare il papa, un mafioso, un poliziotto. Invece sempre e solo Pierino: se Pierino muore la gente ride».
Si è sentito tradito dal cinema?
«Sì, perché ha permesso che uscissero altri Pierini che non erano miei, che non facevano soldi e dunque i produttori pensavano che il personaggio non funzionasse più. Mi hanno abbandonato, sono stato dieci anni senza lavorare. Ho avuto una forte depressione e ne sono venuto fuori grazie a mia moglie».
Ora cosa vorrebbe fare?
«Ho scritto due sceneggiature carine. Una è “Fra’ Pierino”, con Pierino che diventa prete. L’altra è il seguito di Cotequinho che per diventare allenatore di calcio femminile deve fingersi gay. Uno spero di farlo».