Andrea Bosca: «Settant’anni dopo la lezione di Pavese è sempre molto attuale»
L’attore in tour in Sardegna con “La luna e i falò”
Al cinema ha lavorato con Mario Martone, Ferzan Ozpetek, Abel Ferrara, Mimmo Calopresti. In televisione è stato protagonista di alcune serie le più diverse tra loro, da “Raccontami” a “Nudes”, da “I Medici” a “Màkari”. Il lavoro, insomma, non manca ad Andrea Bosca. Ma tra un set e l’altro l’attore piemontese, 42 anni, non trascura il suo primo amore, il teatro. Riparte dalla Sardegna la tournée di “La luna e i falò”, lo spettacolo tratto dall’ultimo romanzo di Cesare Pavese, diretto da Paolo Briguglia e prodotto dalla sarda Bam Teatro, in cui Bosca è Anguilla, emigrato in America, che ritorna nel suo paese al termine del secondo conflitto mondiale e si confronta con una realtà cambiata e segnata dalle ferite della guerra, tanto da non riconoscere più i volti e i paesaggi familiari, fino a sentirsi straniero in patria. Appuntamento venerdì 10 marzo a Ittiri per la rassegna Mab Teatro, sabato a Sanluri sotto le insegne del Cedac e domenica al Teatro Alkestis di Cagliari a cura di Bam Teatro.
Bosca, il suo primo “incontro” con Cesare Pavese?
«Da bambino. Veniamo dagli stessi posti, dalle Langhe. Mio nonno leggeva Pavese, si portava i suoi libri sempre in giro, anche come ricordo delle nostre colline. Io quei libri li ho sempre visti così».
Com’è stato riscrivere Pavese?
«Il testo non è scritto in maniera cronologica: abbiamo scomposto la scrittura per la messa in scena, mantenendo sempre intatte l’essenzialità e la possibilità di immaginare. Ho dovuto incastrare lo spettacolo con la vita del set, ma l’ho voluto fare perché arrivato a 40 anni come Pavese, e come Anguilla, venendo da quegli stessi luoghi, mi è sembrato di tornare alle mie origini linguistiche, di quei territori e di quei temi. Temi universali in un posto locale».
Cosa ha rappresentato Pavese per la letteratura italiana?
«Pavese era un lettore vorace, ma anche un editore incredibile. Ha fatto crescere un sacco di scrittori: è stato il vignaiolo di tutta la letteratura del Novecento. Dall’altro lato, è talmente grande che ti chiedi cosa avrebbe potuto scrivere oggi. Non è uno che moralizza, ma vive di scelte etiche. Si chiede: cosa dobbiamo fare per le persone che non hanno le nostre possibilità? Non bisogna dire che gli altri le facciano, bisogna aiutarli».
Il contrario di quanto sentiamo dire in questa epoca. Anche nei palazzi della politica
«Ripeto, sono tutti temi attuali, universali. C’è la guerra che cambia le persone, c’è il rapporto con le persone disagiate che non erano altro che coloro che abitavano le nostre campagne 70 anni fa. È una lotta contro la disumanizzazione».
Nella vita di Andrea Bosca la luna e i falò convivono? Il destino che ruolo ha?
«Ci sono tante cose della credenza popolare e della sapienza dello stare assieme che aiutano molto. È quella pietas che dai latini in poi ci contraddistingue. Tutti la amano ma noi italiani la vediamo come un segno di debolezza. Nel testo di Pavese c’è un messaggio vitale: l’ignorante non si capisce mica dal lavoro che fa, ma da come lo fa».
Martone, Ozpetek, Abel Ferrara: il set più difficile?
«I registi difficili sono altri, quelli indecisi, quelli che non ti stimolano».
Com’è stato interpretare Marco Pannella nel film di Mimmo Calopresti, “Romanzo radicale”?
«Ho studiato tantissimo, parlato con le persone a lui più vicine, visto decine di filmati. Ho fatto le cose che faceva Marco: digiuni, cambiamento fisico. Mi sono divertito, è stata una gioia. Lui era diversissimo da me, mi sono aggrappato a un tratto che abbiamo in comune: l’attenzione per i diritti e la volontà di farli rispettare».
Oggi c’è un nuovo Pannella?
«La sua è stata una esperienza unica. Ce ne sono di nuovi e li sto osservando».
Prossimo appuntamento al cinema, ancora con Cesare Pavese, in “La bella estate” di Laura Luchetti.
«È una piccola partecipazione. Laura mi chiama sempre nei suoi lavori, ora attendo il prossimo. Sono felicissimo di questa unità d’anima tra di noi proprio su Pavese».