La Nuova Sardegna

L'intervista

Valentina Cervi: «Hollywood? Non è mai stato un traguardo»

di Alessandro Pirina
Valentina Cervi: «Hollywood? Non è mai stato un traguardo»

L’attrice il 20 luglio sarà a Villanovaforru al Nurarcheofestival. Parla anche del nonno Gino: «Amo Peppone: quando ho bisogno di iniezioni di fiducia lui mi appare in tv»

01 luglio 2024
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Ha lavorato a Hollywood e in Francia, è stata diretta da Jane Campion e Francis Ford Coppola, è stata nel cast di “True blood”, porta un cognome che ha segnato la storia del cinema in Europa. Valentina Cervi è una delle attrici italiane più internazionali. È riuscita a varcare i confini quando ancora le frontiere del cinema erano impossibili da oltrepassare e lo ha fatto senza perdere quell’umiltà che emerge da ogni sua parola. Il 20 luglio Valentina Cervi sarà protagonista del cartellone del Nurarcheofestival di Villanovaforru, dove, diretta da Iaia Forte, porterà “La strada che va in città” di Natalia Ginzburg, uno spettacolo che per la prima volta mise in scena proprio in Sardegna, a Nora nel 2021.

Valentina, cosa significa per lei riportare in scena Delia?

«Sono innamorata di questo personaggio. Ogni volta che incontro Delia e lo sguardo di Natalia Ginzburg mi emoziono come la prima volta. Delia è una ragazza sprovveduta, figlia di un’epoca in cui le donne erano abituate al fatto che se vivevano in campagna ed erano le ultime di 5 fratelli dovevano per forza fare un matrimonio di convenienza. Delia si affida a questa convenzione, ma questa strada che va in città rappresenta la corruzione del suo animo, la separa dalla sua vera identità. Delia ha la possibilità di ottenere le luci della ribalta, ma le pagherà a caro prezzo, a partire da un matrimonio con un uomo che non ama. C’è però un epilogo stupendo grazie alla maternità, che sposta sempre il nostro asse e dunque anche il suo: Delia finalmente potrà sentire pulsare l’amore».

“La strada che va in città” è il primo libro di Natalia Ginburg. Cosa rappresenta per lei questa immensa autrice?

«Per me è l’incontro con una donna che ha incarnato il femminile, anche con battaglie politiche, ma lo ha sempre fatto con comprensione dell’uomo, inteso come qualcosa di diverso ma fondamentale per il femminile. È sempre stata inclusiva rispetto al maschio. Mi somiglia un po’. Ha sempre concepito il maschile come un portale per attraversare stadi a cui non avrebbe avuto accesso. Nel bene e nel male».

Natalia Ginzburg fu perseguitata dal regime, il marito fu torturato e ucciso dai fascisti. Che pensa delle parole di Liliana Segre che dice di non sentirsi più al sicuro nel nostro Paese?

«Non voglio addentrarmi in questo argomento, il vissuto di Liliana Segre parla da solo. Io penso che la cosa più terribile di questo momento storico sia la guerra che è attivata in ognuno di noi, contro o a favore di qualcosa. Tutti noi dovremmo risolvere i conflitti, a partire da quelli più piccoli: sarebbe questa la vera rivoluzione. Certo, se penso a quanto sta accadendo in Palestina dico che è in atto una distruzione di massa, ci penso ogni giorno, ma ripeto dobbiamo partire dai piccoli gesti».

Nipote di Gino Cervi. Cosa è stato per lei questo nonno mai conosciuto?

«È stato un passaggio di testimone che ho raccolto in maniera inconsapevole verso i 16-17 anni quando ho iniziato i primi corsi di recitazione e ho capito quello che volevo fare. Me ne sono accorta negli anni, i suoi film li ho visti dopo. Io sono come una figlia di artigiani che si passano il mestiere».

Peppone o Maigret?

«Non avevo mai osato dirlo: Peppone, perché ogni tanto mi appare in tv, e sempre nei momenti in cui ho bisogno di una iniezione di fiducia».

Ha iniziato in Italia, ma subito ha lavorato all’estero: da Jane Campion alla serie su James Dean, alla Francia dove fu candidata ai Cesar. Hollywood è mai stato un traguardo?

«Ho sempre vissuto il lavoro con incoscienza. Sono sempre stata chiamata, mai andata a cercare un provino. Los Angeles lo ho ritenuto un luogo come tanti, mai un traguardo, come la Francia, l’Inghilterra, l’Ungheria».

La sua amica Valeria Golino ha raccontato che Julia Roberts le ha “soffiato” il posto per “Pretty woman”. A lei è successo qualcosa di simile?

«Mi è capitato nella vita di desiderare un ruolo che poi è andato a un’altra, ma poi ho sempre capito il perché la scelta dell’altra fosse più giusta».

Con “True Blood” è stata una delle prime italiane in una serie Usa. Che pensa di quanto accaduto a Sabrina Impacciatore, diventata una star solo dopo Hollywood?

«Gli americani non hanno bisogno di scegliere nomi di grande risonanza. Per loro l’attore è importante al di là della fama e questo ha permesso a tantissimi attori, non solo stranieri, di diventare protagonisti di serie».

Il suo compagno, Stefano Mordini, è un regista. Ha mai pensato di passare dall’altra parte della macchina da presa come le sue amiche Valeria Golino e Jasmine Trinca?

«Assolutamente no, ancora sto cercando di fare bene il mio lavoro. Valeria e Jasmine sono talenti assoluti, ma fare la regista non è una cosa che desidero».
 

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