La Nuova Sardegna

Intervista

Serena Bortone: «Amicizie, delusioni e il Live Aid, vi racconto i miei anni Ottanta»

di Alessandro Pirina
Serena Bortone: «Amicizie, delusioni e il Live Aid, vi racconto i miei anni Ottanta»

La giornalista Rai parla del suo libro “A te vicino così dolce” in cui affronta la sua adolescenza. «Scrivere è stata per me una necessità»

13 luglio 2024
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Siamo negli anni Ottanta, un’epoca iconica soprattutto per chi l’ha vissuta, ma il romanzo di Serena Bortone è un testo universale che parla a chiunque, perché al di là dei riferimenti temporali a Reagan, Cindy Lauper o alle cinture El Charro, si parla di adolescenza, una stagione che tutti vivono più o meno allo stesso modo, tra amicizie giurate per tutta la vita, primi amori, delusioni da cui mai ci si riprenderà. In “A te vicino così dolce”, edito da Rizzoli, Serena Bortone, giornalista e conduttrice di punta della Rai, “punita” dagli attuali vertici con 6 giorni di sospensione per avere denunciato la censura ad Antonio Scurati, racconta quella stagione della sua vita con un ritmo narrativo che impedisce al lettore di staccarsi dal romanzo se non quando arriva all’ultima pagina. Ora Serena Bortone arriva in Sardegna per presentare il libro. Un tour che partirà il 22 luglio a Sassari, dove sarà alle 21.30 all’Ex Ma per un incontro all’interno del festival Éntula: in dialogo con l’autrice ci sarà Lorena Piras. L’indomani la giornalista e conduttrice Rai sarà a Cagliari sulla spiaggia del Poetto, mentre alle 21.30 si sposterà a Villamassargia dove presenterà il libro alle 21.30 nel Giardino di Casa Casula. Il tour sardo di Serena Bortone si concluderà il 24 alle 21.30 a Olbia, nel cortile dell’ex Scolastico, all’interno della rassegna “Sul filo del discorso”.

Serena, scrivere questo libro sembra essere stata una necessità, come per chiudere i conti col passato e voltare pagina.
«Per me la scrittura ha carattere terapeutico. Ho sempre scritto per oggettivizzare le mie ansie, le mie preoccupazioni. Non è proprio una autobiografia, ma è una storia che ho realmente vissuto. I conti col passato non si chiudono mai. Noi siamo quello che siamo in virtù di quello che abbiamo vissuto, anche degli errori, delle debolezze. Non sono stata giudicante con il mio passato, ma è vero che scrivere è stata una necessità. È una storia che mi ha ossessionata tutta la vita, ci sono un prima e un dopo».

Definisce l’adolescenza un “incanto perduto”.
«C’era questa idea che stessimo vivendo qualcosa di irripetibile. Ma tutte le adolescenze lo sono. Navighiamo a tentoni nella vita per capire chi siamo, cosa vogliamo e quale posto occupare nel mondo. Abbiamo spesso un’amica simbiotica che ci funge da specchio, ma può essere anche l’età dell’invisibilità».

Il libro è la storia di un’amicizia ma pure di una stagione. Cosa sono stati gli anni Ottanta?
«Un decennio molto caratterizzato. Si erano dimenticate le ideologie, imperavano l’edonismo reaganiano, i marchi, la musica. “Girls just want to have fun” cantava Cindy Lauper. Era l’inno di quella generazione. La prima a cui le madri insegnavano alle figlie a lavorare ed essere indipendenti. Ma c’era comunque la spinta a doversi sistemare. Perlomeno, io racconto ciò che ho vissuto in un ambiente alto borghese di Roma, quello delle scuole private, con un forte bagaglio di classismo e ipocrisia».

Da cui lei sembra prendere subito le distanze.
«Io non mi ci trovavo. Avevo ricevuto un’educazione cattolica democratica. I miei mi insegnavano che dovevo stare dalla parte dei più deboli. E infatti è a mia madre che dedico questo libro, lei mi parlava di don Milani, mi ha educata alla libertà di giudizio, all’indipendenza mentale».

“La nostra storia è legata agli anni Ottanta, quando Internet non esisteva che nella mente degli dei”. Ha nostalgia?
«Non sono di natura nostalgica, non ce l’ho nel dna. Ma è vero che si è persa quella fase entusiasmante che era la scoperta. Sapere è bello, indovinare è più divertente».

I suoi idoli musicali?
«Gli Spandau Ballet, Madonna. E George Michael: intuivo la storia di un figlio di immigrati greci, il riscatto attraverso l’arte mi ha sempre affascinato. E poi al Live Aid scoprii i Queen. Ai tempi per noi erano già passati, ma quando Freddie Mercury salì sul palco fu come se avessi ricevuto uno schiaffo energetico».

Che tv guardava?
«Solo Videomusic, per vedere i video e registrarli sulle vhs».

“Eravamo cresciute nell’egemonia dell’estetica”. Che differenza c’è con l’era dei social?
«Recentemente dagli Usa è arrivato il movimento della body positive sull’idea che ogni corpo è conforme, Victoria’s secret sceglie modelle con la ciccia, e questo è rassicurante. Oggi i modelli non sono più omologati. Quanto ai social, il consumo che facciamo con ritocchi, filtri e pose da un lato ti fa dire che ognuno è libero di fare ciò che vuole, dall’altro ti sottopone di continuo al giudizio altrui. Se per noi era il giudizio di trenta ragazzi in discoteca, oggi parliamo di milioni di persone e può essere destabilizzante».

“Non avevamo ideologie, e forse neanche ideali”. Verissimo, ma non crede che su certi valori ci fosse maggiore condivisione. Ai tempi dirsi antifascista era scontato, oggi non più.
«I valori li avevo e anche molto forti. Avevo i racconti di mio nonno che non volle mai prendere la tessera, mia madre che ricordava i bombardamenti. L’antifascismo lo assorbivi in via diretta, oggi la memoria si è un po’ affievolita. Ecco perché è importante che tv e mezzi di comunicazione ricordino sempre cosa è stato quel periodo, le libertà soppresse, i disastri delle leggi razziali e della guerra, ma anche prima la violenza, l’arbitrio, l’esercizio clientelare del potere».

Nel libro racconta la storia di Paolo/Paola. Come fu affrontare il tema della transizione?
«Allora non esisteva, non c’era informazione. Paolo era un ragazzo invisibile. Ovviamente fu uno choc nella nostra comunità e nel libro lo racconto. Era impossibile capire, non avevo gli strumenti, ma ero ferma nella convinzione di non giudicare».

È difficile resistere?
«Giudica solo chi non ha coraggio di comprendere. Giudicare sull’identità di genere non esiste, quello accade solo in uno stato totalitario. Per il resto cerco sempre di trovare una ragione, anche nelle zone oscure. Questa storia che racconto attraverso la voce di Serena adulta è anche un percorso di consapevolezza rispetto al perdono delle proprie fragilità e dei propri errori. Se si comprendono le proprie fragilità e le si perdona, allora possiamo riuscire anche a capire e perdonare le fragilità altrui».

“Scrivere è stato l’ultimo atto d’amore nei confronti della mia adolescenza. Ora posso finalmente diventare adulta”. Un’altra stagione della sua vita che le piacerebbe raccontare?
«Cercherò sempre di uscire dal mio specifico, la mia autobiografia ha poca rilevanza. Mio padre diceva: “la mia vita e le persone possano essere feconde per altri”. Scriverò quello che può essere condiviso e utile per qualcun altro».

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