Tosca: «Siamo in pieno decadentismo, oggi contano solo gli streaming»
La cantante regina della world music riceverà a Siligo il premio Maria Carta: «Onorata del riconoscimento»
Ricerca e contaminazione sono due parole che non mancano mai nel suo vocabolario. La sua carriera è tutta improntata verso quei due traguardi che lei continua a tagliare con canzoni, album, concerti, programmi radiofonici e l’Officina Pasolini, la sua creazione. Tutta questa sua attività super prolifica ha spinto la Fondazione ad assegnare a Tosca il premio Maria Carta di quest’anno che le verrà consegnato il 1 settembre a Siligo. Una edizione particolare visto che si tratta del novantesimo anniversario della nascita della grande artista sarda e il trentesimo della sua morte.
Tosca, premio Maria Carta. Che effetto fa?
«Bello, è una cosa che mi ha molto onorata. Anche perché è un’artista che amava molto mio padre, che era molto legato alla musica popolare. Me la faceva ascoltare».
L’ha mai incontrata?
«Purtroppo no. Quando lei è morta io avevo appena iniziato. Ma ricordo le canzoni che da ragazzina mi faceva ascoltare papà. E poi io mi occupo di world music, Elena Ledda, oltre a essere una delle mie più care amiche, è un’artista che stimo tanto. Come adoro Alessia Tondo, Daniela Pes. Siamo tutte un po’ figlie di questa grande donna».
Cosa rappresenta Maria Carta nel panorama world music?
«Ha rappresentato quello che anche io rappresento, ovvero quella riserva protetta che ancora fa ricerca, contamina, fa conoscere. È un po’ come portare in scena il proprio sangue in un mondo globalizzato. È molto faticoso, ma è anche un lusso che uno si prende. Nel mondo sono tante le donne così: Silvia Perez Cruz in Spagna, Marisa Monte in Brasile, Natalia Lafourcade in Messico, e poi tutte le cantanti argentine. È come giocare in un altro campionato, ma in questo campionato c’è una forte componente del tuo territorio, che non vuole dire diventare oleografici o folkloristici. Quando appartieni a quella musica sei accolto ovunque e in qualche maniera ti integri cantando».
Quando ha capito che alla sua passione per la musica doveva unire anche la ricerca e il recupero di mondi musicali non tradizionali?
«Sono sempre stata una curiosa: non mi basta mai, sono sempre alla ricerca di un qualcosa. Io credo molto nel passaggio terrestre e in quello che noi uomini possiamo fare in questo passaggio. Maria Carta ha recuperato, ha contaminato, ha lasciato un capitale. Cosa che è sempre più difficile in un mondo che va verso la globalizzazione, la superficialità. Oggi non importa cosa canti, basta che canti. Oggi l’arte viene vissuta come un modo per ottenere uno status. Ma il successo è come l’amore, non lo devi mai inseguire. Ogni mattina mi sveglio innamorata della musica e vado a letto innamorata della musica. Non riesco a tradirla. Ho provato a fare il pop, ma non sono capace. Non ho quella saggezza legata alla leggerezza. Non è snobberia, bensì appartenenza a qualcosa che non mi riesce e a questo punto neanche mi interessa più».
La world music in Italia ha sempre una accezione provinciale. Passi avanti?
«No, ci sono delle punte come Anna Castiglia, Daniela Pes, Setak, Alessia Tondo, Ebbanesis. Ma il Pino Daniele, il giovane che affonda e coniuga modernità e tradizione no. Secondo me la cosa è ancora lontana perché la world music viene vissuta come qualcosa di antico, di chiuso, di nicchia. Ma non è così».
Il suo giudizio sulla musica di oggi?
«Mi viene da ridere quando sento dire che c’è una sorta di rinascimento. Per me siamo di fronte a una forma di decandetismo: oggi non vieni giudicatoper quello che scrivi, ma per quanti streaming fai, quanti dischi vendi. Questo non incentiva la bellezza ma la quantità».
L’Officina Pasolini è il contrario di un talent, dove si insegnano il contrario dell’apparire e del successo effimero. Qual è il bilancio di questi anni?
«Meraviglioso. Non è un’agenzia, né una casa discografica né un booking. È un laboratorio in cui trovi il tuo modo di essere un artista, un attore, un cantante. È un percorso a 360 gradi e c’è anche chi è diventato scenografo, costumista, produttore, arrangiatore. È un lavoro che non sta sul breve ma sul lungo termine per fare sì che le carriere possano durare anni. L’Officina Pasolini è una riserva protetta che va salvaguardata, uno dei pochi luoghi dove ancora resistono il tempo, la pazienza, la costruzione. Noi vogliamo costruire una rete fatta di club, piccoli teatri che sia capillare, in modo che si torni a creare questa vascolarizzazione necessaria. Non esiste solo la aorta ma tante piccolissime vene».
Con Sanremo siete compatibili?
«Mi piace andare a Sanremo. Io non amo le competizioni, il festival è l’unica che mi piace. È un po’ come quando gioca la nazionale. Ma a Sanremo devi andarci per quello che sei, non tanto per andare. Il festival è bello se fatto con coerenza».