La Nuova Sardegna

L’intervista

Marcello Fois: «Gli scrittori contano poco, solo Michela Murgia faceva eccezione»

di Paolo Ardovino
Marcello Fois: «Gli scrittori contano poco, solo Michela  Murgia faceva eccezione»

Sabato 12 ottobre al cinema Ariston riceverà a Bitti la targa della prima edizione del “Premio nazionale Giorgio Asproni”

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Bologna, mattina. «Per il 14 e per il 94 la fermata è quella», Marcello Fois dà indicazioni sui bus a una signora del posto e nel frattempo discute della Sardegna al telefono («la sindrome del colonizzato ci soffoca»). Lo scrittore sabato 12 ottobre al cinema Ariston riceverà a Bitti la targa della prima edizione del “Premio nazionale Giorgio Asproni” bandito dalla Fondazione dedicata all’illustre politico, teologo e giornalista dell’800. L’intellettuale nuorese, scelto come primo vincitore, sembra provare un senso di sconforto diffuso. È un’intervista per festeggiare un riconoscimento ma la riflessione è amara («d’altronde si attraversano tre fasi: il perennemente giovane, il solito rompiscatole e quella in cui sono ora, quella del vecchio grillo parlante») .

Fois, che figura rappresenta per lei Giorgio Asproni?

«Il primo contatto è stato aver frequentato cinque anni del liceo Giorgio Asproni di Nuoro, perciò un minimo di informazioni verso a chi è intitolata la scuola le impari. Prima del liceo era un nome, una via, un busto. È uno di quei pezzi di storia che non conosciamo affatto e non sappiamo collocare. Il nostro arco istituzionale va dai nuragici alla Brigata Sassari, in mezzo c’è come un vuoto. Entrambi sono esempi di orgoglio ma quando si rimarca troppo, l’orgoglio, forse vuole dire che non lo si ha...».

Iniziative come questa, la nascita di una Fondazione e di un premio, aiutano nella riscoperta di chi abbiamo dimenticato?

«Le Fondazioni dovrebbero aiutare in questo senso, sì. Per spiegare che esistono personaggi che non abbiamo abbastanza abitato ma sono fondamentali. Di Asproni sappiamo quanto di Angioni, e cioè poco, eppure per noi sono importanti. Di Eleonora d’Arborea cosa sappiamo? Giusto un’infarinatura. Per una società che si definisce popolo con una certa prosopopea, siamo ben distanti dal popolo».

E perché è così? È un vizio tutto nostro?

«Qualche giorno fa stavo scrivendo per Einaudi la prefazione alla ripubblicazione dei diari di viaggio di Carlo Levi in Sardegna. Ed è impressionante leggere che non ci siamo mossi di un passo. Lì c’era la giustificazione che stavamo entrando nella modernità, erano gli anni’50 e’60, oggi non c’è più. Semmai abbiamo il problema dell’analfabetismo di ritorno. Una cosa buffa di quei diari: Carlo Levi non osa usare luoghi comuni e invece mentre è a Cagliari chiacchierando con un commerciante, è quest’ultimo a parlargli dell’isola come terra dei briganti. Una categoria che Levi non ha, la impara dai sardi stessi. La sindrome del colonizzato ci soffoca».

La Sardegna di oggi, la sua classe dirigente e politica, non le piace?

«Viviamo un gattopardismo applicato. Non c’è grande differenza tra il precedente governatore e l’attuale governatrice. A Solinas il centrosinistra non ha fatto opposizione ed è così per il centrodestra ora con Todde. Ma questo perché in Sardegna, come per tutte le regioni povere, l’attività politica è un’istituzione occupazionale».

A sentirla viene da pensare: perché gli scrittori non vengono più coinvolti nel dibattito pubblico? Ormai tendiamo a guardare la realtà con gli occhi di economisti, tecnici, politici e basta.

«Semplicemente perché non se lo meritano. Non incidono. Ma in realtà chi si procura lo spazio poi c’è. Evidentemente a volte quel che si dice può avere altri significati, per Michela (Murgia, ndr) è successo all’ennesima potenza. Ma ora siamo negli anni di piombo. Si produce solo mass market».

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