La Nuova Sardegna

L’intervista

Loredana Macchietti Minà: «Gianni era un giornalista vero, oggi si cerca il like»

di Alessandro Pirina
Loredana Macchietti Minà: «Gianni era un giornalista vero, oggi si cerca il like»

La moglie del grande cronista in Sardegna per presentare il libro su Fidel Castro: «Il suo patrimonio per le nuove generazioni»

12 ottobre 2024
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Le nuove generazioni non lo conoscono come dovrebbe essere, e non solo per questioni anagrafiche. Le sue interviste, le sue inchieste sono sempre state considerate troppo scomode per approdare in quella tv generalista di cui lui, ai tempi della grande Rai, fu attore protagonista con trasmissioni come “Blitz” e “La domenica sportiva”. Gianni Minà, però, è proprio alle nuove generazioni che ha voluto lasciare la sua eredità materiale e spirituale. Lo ha fatto tramite la sua compagna di vita, la regista Loredana Macchietti Minà, che da quando Gianni è scomparso – era il 27 marzo 2023 – si sta dedicando anima e corpo alla sistemazione del suo immenso archivio, per renderlo fruibile. Un patrimonio di video, scritti e immagini che racchiude sessant’anni di vita da cronista, all’insegna di storie, impegno sociale e servizio pubblico. In questa missione c’è anche la promozione del libro “Fidel, un dialogo lungo trent’anni”, in cui il grande giornalista racconta le sue quattro storiche interviste con Fidel Castro. Da domani 14 ottobre a giovedì Loredana Macchietti Minà, che del libro è la curatrice, sarà in Sardegna, a Monserrato, Nuoro, Alghero e Sassari, per un tour di presentazione voluto dai circoli sardi dell’Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba.

Partiamo dal libro?

«Mi faccia dire una cosa: io sto facendo i compiti a casa, Gianni mi ha lasciato detto tutto quello che voleva venisse fatto. Era un grandissimo organizzatore, uno che studiava tutto alla perfezione e aveva le idee chiarissime».

Un dialogo lungo trent’anni. Perché questo libro?

«Gianni conosceva molto di più gli Stati Uniti, quando era dipendente Rai li aveva girati tutti. Poi, un po’ per ragioni familiari visto che la prima moglie era cubana, iniziò a frequentare di più quel Paese. Dopo la prima intervista a Fidel Gianni si accorse che gli Usa testavano le strategie di comunicazione prima su Cuba e poi sul resto del mondo. A quel punto si mise a studiare l’America Latina: il suo lavoro era scrivere articoli su Cuba per smontare quelle lui chiamava bolle mediatiche e speculative. Di questo libro Gianni ne aveva già parlato con Minimun Fax. Lo aveva già messo in cantiere e io sto solo chiudendo i lavori».

Per la prima intervista con Fidel Castro attese 13 anni.

«Lui si mise in lista come tutti gli altri giornalisti del resto del mondo. Quando lo ho conosciuto, nel 1985, stava preparando la storia della boxe e le domande per Fidel insieme al giornalista Saverio Tutino. Ricordo che ne imbastì oltre cento. Perché Gianni era così, un po’ genio e un po’ folle. Lui si era sempre autofinanziato, in puro vecchio stile Rai. L’aiuto determinante arrivò da Gabriel Garcia Marquez. Erano amici e fu una sorta di reciprocità: Gianni lo aveva aiutato a incontrare Pertini. Per due volte andò con la troupe, alla terza riuscì. Gianni chiese a Fidel se volesse leggere le domande. Fidel disse: con la storia che abbiamo non abbiamo paura delle parole. Disse sì a tutte le domande, e rispose a tutte. Due folli».

Sedici ore di intervista.

«Gianni aveva la pellicola per sole 3-4 ore. La restante gliela prestò Fidel, quella dell’esercito rivoluzionario. Io ho le pizze».

A seguire altre tre interviste.

«La seconda fu con la crisi del comunismo. Fu uno scoop mondiale. Ma il Corriere titolò: Minà intervista Fidel in ginocchio. Eppure gli aveva fatto 30 domande scomode sui diritti civili. Ma l’Italia è campione mondiale nel denigrare i suoi cavalli di razza. Ma non solo. A un certo punto Gianni decise di intervistare i dissidenti cubani. Pensai che mai ci saremmo riusciti, ci aiutò Alessandra Riccio, corrispondente dell’Unità. Dopo 3-4 mesi ci diedero il permesso e li facemmo tranquillamente tutti e 35. Io pensavo che Gianni avesse fatto uno scoop pazzesco. Ma la Rai non volle il documentario. Lì Gianni capì che c’era una strategia su questo Paese».

Nel 2003 Minà tornò a Cuba e consegnò a Castro una lettera di protesta contro la condanna a morte degli anti-castristi che dirottarono una nave.

«Gianni era talmente libero che ci metteva la faccia. Ho sempre ammirato questo suo atteggiamento. Dopo questi tre condannati a morte c’è stata una moratoria, a Cuba nessuno è stato più ucciso. Negli Usa invece continuano».

Perché la Rai ha snobbato un gigante come Minà?

«Perché non era addomesticabile. In Rai la censura è sempre esistita, ma almeno prima c’erano delle maglie che ti permettevano di fare qualcosa. Anche grazie a questo Gianni è diventato leader d’opinione. Oggi la Rai è una scatola vuota, quando cambia il governo c’è il sacco e non resta niente. Ancora oggi la Rai non ha trasmesso il documentario su Gianni».

Lei porta avanti una battaglia per il giornalismo, contro fake news e manipolazioni.

«Oggi ci sono i comunicatori, non i giornalisti. Molto spesso sono famosi solo perché hanno tanti like. A chi dice prima c’era il giornalismo, ora c’è l’on line, io rispondo: prima, durante e dopo c’è il giornalismo, il resto è comunicazione».

La foto con Leone, De Niro, Garcia Marquez, Muhammad Alì. Chissà quanti racconti...

«Di quella foto iconica ci sono due sole spiegazioni di Gianni: una in un articolo, una nel libro. Dopo la sua morte ho contato almeno 13 versioni diverse. Ma queste non valgono. Sto creando una scheda su quella foto perché in archivio voglio mettere solo roba certa da fonte certa. E nei racconti di Gianni si parlava solo degli ospiti e delle mogli».

Gianni Minà e la Sardegna.

«Gianni era legatissimo a Giovanni Pische, è stato il suo mentore. Lo conobbe quando era piccoletto a Torino. Pische era un eroe di guerra che ha educato alla vita questo gruppo di ragazzini in cui c’era Gianni. Vent’anni fa siamo andati a Santu Lussurgiu per commemorarlo e c’erano tutti quei ragazzini che sono ancora amici tra loro. Gli amici veri di Gianni erano il gruppetto di Pische. L’etica di Gianni era quella del padre, anche lui era così. Ma l’educazione all’arte e alla cultura gliela ha trasmessa Pische».

Qual è l’eredità di Minà?

«Ha lasciato il suo patrimonio culturale cartaceo e filmico alla Fondazione. E dunque alle nuove generazioni, che devono avere armi per resistere, piccoli mezzi per renderle uno spirito critico. Sono contenta di venire in Sardegna per portare la testimonianza di Gianni anche per un mondo che non ha mai avuto voce. Del genocidio in Guatemala, per esempio, ne ha parlato solo Minà. Mi piace pensare che il giornalista sia ancora una figura sociale fondamentale».

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