Lo scrittore Nicola Muscas: «Raccontare il mito Gigi Riva parlando delle nostre vite»
Con il suo secondo romanzo, “Un amore di contrabbando”, pubblicato in questi giorni da Strade Blu Mondadori, riesce nell’impresa di raccontare Rombo di Tuono senza sprofondare nella retorica
«Scrivere di un personaggio talmente amato da mettere d’accordo tutti è complicatissimo. Ho pensato che il modo migliore per farlo fosse costruire attorno alla sua storia un’impalcatura di persone normali e di normali miserie umane». Nicola Muscas, 42 anni, cagliaritano, giornalista freelance, animatore culturale, ex giovane scrittore, ex scrittore esordiente. Con il suo secondo romanzo, “Un amore di contrabbando”, pubblicato in questi giorni da Strade Blu Mondadori, riesce nell’impresa di raccontare Gigi Riva senza sprofondare nella retorica e, anche in forza di questo, di confermarsi tra i migliori scrittori sardi in circolazione, dopo l’exploit di “Isla Bonita” (66th and 2nd, 2021).
C’era proprio bisogno di un altro libro su Gigi Riva?
«No, tanto meno di un libro scritto da Nicola Muscas».
E allora?
«È successo che l’editore me l’ha chiesto e non ho saputo dire di no. Solo che per un mese mi sono prodotto in tentativi fallimentari: mi era stata commissionata una biografia letteraria e ci ho provato. E di questo, tornando alla domanda, onestamente non c’era bisogno, tant’è che ho alzato bandiera bianca per un senso di inadeguatezza rispetto alla grandezza di questa storia».
Allora come è nato “Un amore di contrabbando”?
«Dopo un brainstorming con l’editor Giordano Aterini: ho proposto qualcosa di totalmente diverso, loro sono rimasti entusiasti e io sono rimasto solo al mondo con questo fardello. Però a quel punto ho cambiato i paradigmi».
In che senso?
«La storia di Riva, di quel Cagliari e di quegli incredibili ragazzi è un classico senza tempo. E come tutti i classici, dall’Odissea alla Divina Commedia, ha la potenza di raccontare ancora di noi: dentro non c’è solo un calciatore, ma un’epoca storica, i sardi e la loro terra, quello che siamo stati e vorremmo essere. Bisognava solo trovare una chiave».
Cosa ha messo di suo?
«Tutto ciò che non è vero. Le mezze verità, le bugie intere, la distorsione della realtà. In una parola, la fiction».
In che modo?
«Tutti parlano di favola dello scudetto del Cagliari. Benissimo: ma favola non è verità, addirittura in sardo la parola favola, “faula”, è sinonimo di bugia. E così è nato un racconto impastato di menzogne, pieno di testimoni poco affidabili, un ballo dell’assurdo che aiuta però a restituire verosimiglianza alla storia incredibile di Riva».
Il risultato è sorprendente.
«Scrivere questo libro mi ha divertito e fatto disperare. L’elemento cardine è questo personaggio gigantesco, Riva, ma io delle storie adoro “la sensualità delle vite disperate”, come dice Paolo Conte».
Il protagonista, Leonardo Carboni, è un giornalista precario cagliaritano come lei. Quanto altro Nicola Muscas c’è in questo personaggio?
«Non molto altro. Carboni è immerso in un torpore esistenziale che deriva da una serie di mancanze: la fine di un amore, la perdita del padre, l’assenza di ispirazione».
Poi cosa accade?
«Il giorno del funerale di Riva qualcosa scatta in lui, si ridesta dal torpore perché negli occhi della gente vede una luce strana. E io questo l’ho vissuto di persona. Come il fatto che la gente, quando ti parla di Riva, ti prende per il braccio, ti vuole raccontare delle cose. Non tutte vere, ovviamente. Alcune sono di terza mano e sono distorte, altre sono balle colossali. Leonardo inizia a nutrirsi delle vite degli altri e da qui parte il suo viaggio alla riscoperta di Riva e di se stesso».
Il dolore per la perdita del padre affiora costantemente.
«Questo è l’altro elemento autobiografico. Ma non volevo scrivere una storia consolatoria, mi interessava che il dolore ma fosse funzionale rispetto a ciò che stavo raccontando».
Riva è scomparso da un anno, ma tra i sardi è più presente che mai. Anche tra le nuove generazioni.
«Io appartengo alla generazione che non l’ha mai visto giocare. Tra non molti anni non ci saranno più testimoni oculari. È anche per questo non bisogna smettere di raccontare la sua storia».