La Nuova Sardegna

Nuoro

Tradizioni

La Barbagia apre le danze a Dioniso, è il carnevale delle maschere nere

di Francesco Pirisi
La Barbagia apre le danze a Dioniso, è il carnevale delle maschere nere

Da Gavoi a Mamoiada, da Ottana a Orotelli: viaggio tra i riti ancestrali

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Nuoro Gavoi anticipa tutti, in provincia, e per il giovedì grasso propone i Tumbarinos. La giornata sarà segnata in molti centri dai balli in piazza. Da domenica si entra nel vivo. Il piatto forte tra il Nuorese e la Barbagia, le maschere nere, che nell’antichità danzavano in onore di Dioniso. Perché la divinità ha il potere di risvegliare le forze positive della natura e, quindi, di garantire i raccolti. Lo fanno da tempo immemorabile i mamuthones, che con gli issohadores si esibiranno domenica a Mamoiada. Marciano a gruppi di 12, su due file. Indossano sa “visera” di pero selvatico o di olivastro, nera, truce. La mastruca è di pelle di pecora. Sulla schiena i campanacci, il cui suono scandisce i passi della danza. L’origine è stato oggetto di alcune dispute intellettuali. Il docente Marcello Madau ha evidenziato la carenza di note scritte, che ne possano testimoniare l’antichità preistorica. L’etnologa Dolores Turchi, 35 anni fa, nel suo “Maschere, miti e feste della Sardegna”, si è detta certa che tutto va riportato alla devozione per Dioniso.

Lettura in qualche modo confermata tra i mamoiadini: «Gli anziani del paese – ha ricordato Cosimo Soddu, Coeddu – durante la guerra ci dicevano di vestirci da mamuthones perché il suono dei campanacci avrebbe esorcizzato il pericolo». Tziu Coeddu è stato parte della vecchia guardia, insieme a Costantino Atzeni, Ziccheddu Soddu, Juvanne Atzeni, Franziscu Grecu. «Il carnevale della nostra gioventù – ricordava – era una festa locale, dei giorni di Sant’Antonio, domenica e martedì di carnevale. Molti di noi erano servipastori e potevano contare di un riposo solo ogni 15 giorni».

A Ottana quest’anno ad aprire il carnevale sarà domani l’esposizione del “Mat”, museo di arti e tradizioni. Visitabile dalle 15. L’altro appuntamento per i cultori della tradizione è quello di “Sas amoradas”, il 3 marzo, dalle 18,30. Una gara poetica a tema. Da qualche anno ha riesumato la serie di ottave che si cantavano alle ragazze in età da marito, per ingraziarsi le loro attenzioni. I più bravi ne inanellavano anche 18-20 e battevano così la concorrenza, nel terreno sentimentale.

Il paese rivivrà nei prossimi giorni le scorribande dei merdules, anch’essi raccontati quale espressione della religiosità pagana. Nella tradizione su boe, la maschera taurina, portata alla fune da su merdule, che ha invece sembianze umane. Nei tempi moderni è diventata tra la comunità ottanese uno dei pochi momenti per fare festa e dimenticare la condizione greve del paese, afflitto dalla malaria e dalla povertà, prima della rinascita. Tanto che da Sant’Antonio (ancora alla fine del ’900 sin dal Natale) e poi ancora con il ciclo canonico Sant’Antonio e carnevale, si mascherano tutti, adulti e piccini. Persino le vedove, un tempo costrette alla clausura, sotto le feste invernali ne approfittavano per uscire, confondendosi tra le maschere. Non sempre riuscendoci del tutto: «As vidu sa viuda, seria seria... ».

Sempre nella finzione tra le figure sa ilonzana, che tiene il filo della vita, pronta a tagliarlo affinché sia di monito agli eccessi del divertimento. Ottana ha investito sulla tradizione, a iniziare dalle esposizioni della maschera facciale (sa caratza), un tempo stretta e con le corba corta, oggi ampia, variopinta. Nell’immediato dopoguerra i merdules colpirono l’interesse di un gruppo di turisti americani: «Ci chiesero d’indossare mastruca, caratza e campanacci, per poi farci sfilare», raccontava Mario Cossu, scomparso di recente, dell’associazione “Sos merdules betzos de Ozzana”.

A Orotelli già da domenica le scorribande dei Thurpos (i ciechi), che chiudono la triade delle maschere nere. La copertura del volto è fatta con la fuliggine del sughero, bruciato nella vestizione. Portano su gabbanu, di orbace, incrociato dalle cinghie con i campanacci. Uno è su thurpu massaju (contadino), un’altro è il maniscalco. Nella finzione manate di cereali per terra, il segno dell’abbondanza dei raccolti.

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