Abbattuti sei alberi, scoppia la polemica
L’intervento in via Demuro contestato dal fratello di una vittima dell’incendio di Curragghja: «Un gesto imperdonabile»
TEMPIO. L’abbattimento di sei tigli, in due diverse piazze che si trovano entrambe in via Demuro, fra la Rotonda e il commissariato di polizia la prima, e fra la Rotonda ed il Liceo Dettor, la seconda, sta suscitando non poche proteste e discussioni.
A farsi interprete ieri mattina del malcontento, che ha trovato ampio spazio anche in rete, è stato Massimiliano Maisto, operaio, dipendente dell’Ente Foreste, fratello di quel Gigi Maisto che 31 anni fa, il 28 luglio del 1983, immolò la sua vita sulla collina di Curragghja, assieme ad altri otto uomini, combattendo contro un incendio che minacciava da vicino la città.
«Lo scempio provocato nelle due piazzette adiacenti la Rotonda, di fronte a Via Demuro - dice l’uomo -, è un gesto imperdonabile e gravissimo. L’abbattimento di alberi, con la scusa di abbellire una piazza per poi creare qualche posteggio in più, è una cosa senza senso che depaupera il già scarso patrimonio arboreo della nostra città».
Massimiliano Maisto che non è riuscito a trovare l’assessore ai Lavori pubblici per esprimergli il proprio disappunto, racconta di essersi lamentato, invece, con l’assessore all’Aambiente che si sarebbe giustificato affermando di essere a conoscenza dell’abbattimento di soli due alberi peraltro ammalati. «Dopo avergli mostrato lo scempio - racconta Massimiliano Maisto -, ho detto all’assessore che la città di Tempio non è loro ma dei cittadini che la vivono quotidianamente e ai cittadini dovrebbero cercare di restituirla, se non migliorata, almeno integra. Purtroppo devo constatare che l’attenzione, soprattutto per quanto concerne gli alberi nei viali cittadini, è scarsissima». A rafforzare questa sua tesi, Maisto racconta che alla nascita di un figlio a cui ha imposto il nome di Gigi, in ricordo del fratello morto a Curragghja, piantò un platano nel giardino della scuola media sottostante proprio Via Demuro. «Mio figlio - dice -, crebbe assieme a quell’albero che quasi quotidianamente andavamo a trovare e curare. Gli avevamo appeso anche una targhetta in legno con il nome di Gigi e la data di nascita di mio figlio. Un pomeriggio, quando aveva otto anni, andammo a visitarlo. Lo trovammo schiacciato sotto le tonnellate di ferro della scala antincendio che gli operai, incuranti, gli avevano scaricato sopra e che l’indomani avrebbero iniziato a montare. Fu come vedere Gigi morire una seconda volta».