Hong Kong chiede libertà, la Cina frena
Paolo Fois
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Proteste a Hong KongIn bilico la poltrona della governatrice Carrie Lam ma la sua eventuale sostituzione non significa che i giovani hanno vinto la loro battaglia
26 ottobre 2019
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Stando a recenti indiscrezioni riprese dagli organi d’informazione, il Governo cinse sarebbe intenzionato a sostituire l’attuale governatrice di Hong Kong, la contestatissima Carrie Lam. Se confermata, la notizia potrebbe essere vista come un cedimento di Pechino di fronte ad una richiesta dei manifestanti, che da circa cinque mesi invadono le vie e le piazze dell’ex colonia britannica reclamando più democrazia e rispetto dei diritti umani. Secondo una diversa valutazione, per contro, con l’allontanamento di Carrie Lam il governo cinese vuole sottolineare che l’autonomia di Hong Kong non deve essere di ostacolo al funzionamento di un sistema fortemente centralizzato come quello della Repubblica popolare, che gode di un’ampia discrezionalità anche nella scelta dei governanti di quella “Regione amministrativa speciale”.
In ogni caso, una simile decisione non andrebbe interpretata come il segnale di un ulteriore cedimento sul delicato versante del rispetto dei diritti umani ad Hong Kong. Un aspetto, questo, che ultimamente ha dato vita, in Occidente, a numerose iniziative di solidarietà con i manifestanti: va ricordato, in particolare, il voto della Camera dei rappresentanti di Washington, che a larghissima maggioranza ha approvato una legge, attualmente all’esame del Senato, significativamente intitolata “Hong Kong Human Rights and Democracy Act”. Nei confronti di simili prese di posizione Pechino ha risposto piuttosto seccamente, qualificandole come una inammissibile “ingerenza negli affari interni”. Una risposta, peraltro, del tutto prevedibile, che non si discosta da quella costantemente seguita di fronte alle frequenti accuse rivolte alla Cina per la violazione dei diritti mani. “Ingerenza negli affari interni” è stata, e continua ad esserlo, la reazione del governo cinese perfino per i fatti di Tienanmen del giugno 1989, contrassegnati dalla sanguinosa repressione della protesta di tanti studenti e lavoratori.
La questione che oggi si pone è di capire entro quali limiti una simile conclusione possa valere nel caso di Hong Kong. Può cioè il Governo cinese continuare a trincerarsi dietro la “non ingerenza negli affari interni”? Un’esauriente risposta a questa domanda consiglia di non trascurare quanto previsto dalla “Dichiarazione congiunta” del dicembre 1984: dall’accordo, cioè, fra Londra e Pechino, con il quale si era concordato che a partire dal 1° luglio 1997 l’esercizio della sovranità su Hong Kong sarebbe passato alla Repubblica popolare cinese. In detto accordo, la cui scadenza è fissata al 2047, si prevede fra l’altro: a) l’istituzione di una “Regione amministrativa speciale” ad Hong Kong, con “un alto grado di autonomia”; b) una serie di diritti e di libertà (in particolare, i diritti di libera manifestazione del pensiero, di associazione, di religione, di sciopero), “garantiti dalla legge”. Ciò premesso, è da escludere che ad Hong Kong l’intera materia dei diritti umani rientri nella competenza riservata della Cina, giustificando quindi la tesi della “non ingerenza negli affari interni”. Quei pur limitati obblighi assunti dalla Repubblica popolare in materia di diritti umani devono in conclusione essere osservati: spetterà al Regno Unito, in quanto Parte dell’accordo del 1984, esigerne il rispetto.
Resta da chiedersi quali siano le reali motivazioni delle posizioni assunte dai manifestanti da un lato e dal Governo cinese dall’altro. Quanto ai primi, questi non si riconoscono nell’accordo del 1984, di cui auspicano un superamento, per rafforzare, anche in vista della scadenza del 2047, lo speciale regime differenziato. Diametralmente opposti gli obiettivi perseguiti da Pechino, che non vedrebbe di buon occhio il permanere di un regime speciale per Hong Kong, suscettibile di alimentare rivendicazioni analoghe nell’intero territorio cinese.
La possibile nomina di un nuovo governatore ad Hong Kong potrà forse aiutarci a capire in quale direzione la Cina intende ora realmente muoversi.
In ogni caso, una simile decisione non andrebbe interpretata come il segnale di un ulteriore cedimento sul delicato versante del rispetto dei diritti umani ad Hong Kong. Un aspetto, questo, che ultimamente ha dato vita, in Occidente, a numerose iniziative di solidarietà con i manifestanti: va ricordato, in particolare, il voto della Camera dei rappresentanti di Washington, che a larghissima maggioranza ha approvato una legge, attualmente all’esame del Senato, significativamente intitolata “Hong Kong Human Rights and Democracy Act”. Nei confronti di simili prese di posizione Pechino ha risposto piuttosto seccamente, qualificandole come una inammissibile “ingerenza negli affari interni”. Una risposta, peraltro, del tutto prevedibile, che non si discosta da quella costantemente seguita di fronte alle frequenti accuse rivolte alla Cina per la violazione dei diritti mani. “Ingerenza negli affari interni” è stata, e continua ad esserlo, la reazione del governo cinese perfino per i fatti di Tienanmen del giugno 1989, contrassegnati dalla sanguinosa repressione della protesta di tanti studenti e lavoratori.
La questione che oggi si pone è di capire entro quali limiti una simile conclusione possa valere nel caso di Hong Kong. Può cioè il Governo cinese continuare a trincerarsi dietro la “non ingerenza negli affari interni”? Un’esauriente risposta a questa domanda consiglia di non trascurare quanto previsto dalla “Dichiarazione congiunta” del dicembre 1984: dall’accordo, cioè, fra Londra e Pechino, con il quale si era concordato che a partire dal 1° luglio 1997 l’esercizio della sovranità su Hong Kong sarebbe passato alla Repubblica popolare cinese. In detto accordo, la cui scadenza è fissata al 2047, si prevede fra l’altro: a) l’istituzione di una “Regione amministrativa speciale” ad Hong Kong, con “un alto grado di autonomia”; b) una serie di diritti e di libertà (in particolare, i diritti di libera manifestazione del pensiero, di associazione, di religione, di sciopero), “garantiti dalla legge”. Ciò premesso, è da escludere che ad Hong Kong l’intera materia dei diritti umani rientri nella competenza riservata della Cina, giustificando quindi la tesi della “non ingerenza negli affari interni”. Quei pur limitati obblighi assunti dalla Repubblica popolare in materia di diritti umani devono in conclusione essere osservati: spetterà al Regno Unito, in quanto Parte dell’accordo del 1984, esigerne il rispetto.
Resta da chiedersi quali siano le reali motivazioni delle posizioni assunte dai manifestanti da un lato e dal Governo cinese dall’altro. Quanto ai primi, questi non si riconoscono nell’accordo del 1984, di cui auspicano un superamento, per rafforzare, anche in vista della scadenza del 2047, lo speciale regime differenziato. Diametralmente opposti gli obiettivi perseguiti da Pechino, che non vedrebbe di buon occhio il permanere di un regime speciale per Hong Kong, suscettibile di alimentare rivendicazioni analoghe nell’intero territorio cinese.
La possibile nomina di un nuovo governatore ad Hong Kong potrà forse aiutarci a capire in quale direzione la Cina intende ora realmente muoversi.