IL COMMENTO - Coronavirus, lettere dalla trincea della morte
Non so a quanti di voi sia mai capitato di leggere la corrispondenza dei soldati impegnati al fronte durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale; io ho la fortuna di conservare una ventina di lettere tra i cimeli di famiglia, ogni tanto le rileggo per il piacere di fare un tuffo nel passato e tutte le volte non manco di stupirmi per l’enfasi sentimentale e l’autenticità percepite nella narrazione della sofferenza e della paura.
Un soldato che potrebbe morire in battaglia è un uomo che scrive a cuore aperto, che vuole catturare la disperazione del momento, generoso verso i compagni e talvolta magnanime anche verso il nemico, preoccupato fino allo spasimo che le parole non siano abbastanza per riuscire a descrivere ciò che prova.
È un tipo di ansia commovente e molto particolare, la stessa di chi teme che le emozioni non aderiscano giustamente alla parola scritta, la stessa che ho ritrovato nella lettera pubblicata su Facebook dal caporalmaggiore scelto Tomaso Chessa, uno dei militari alla guida del lungo convoglio funebre che da Bergamo ha accompagnato le vittime del Covid-19 nel loro ultimo viaggio.
Quelle immagini choccanti le abbiamo viste tutti, le immagini di un lutto inimmaginabile, di un dramma collettivo veicolato da TV e giornali e proprio in quanto tale, in qualche modo, mediato nella sua reale crudezza.
Essere sprofondato fisicamente nell’inferno di un’epidemia così devastante ha un altro impatto sul cuore umano e il caporale ha voluto spiegarlo con infinita sensibilità.
“Pagherei oro per conoscere i parenti delle 8 persone che ho accompagnato…Spero un giorno di poterli incontrare, ma se così non fosse sappiano che c’ho messo l’anima!”, scrive con sincerità ed empatia.
Con difficoltà, soltanto il nome del signor Guerra è riuscito a reperire e sembra quasi un gioco crudele del destino, una coincidenza di letterine e significati che riporta alle persone coinvolte e al momento vissuto.
Forse rimarranno per sempre vittime anonime, tuttavia ciò che sarà riconosciuto è il nome – e il volto schietto e bonario – di un uomo che non si è limitato a mantenere la professionalità imposta dal suo ruolo, che non ha fatto una semplice “consegna”, che non ha compiuto solo il suo dovere, ma è andato oltre. Quando realizzi che la cura estrema di un parente defunto non è affidata alla famiglia (com’è giusto che sia), bensì a un estraneo e che quell’estraneo sei tu, è impossibile non rimanerne coinvolti, avvertendo su di sé il peso di una grande responsabilità. Diventa inevitabilmente una questione personale, e lo comprendo, è un lutto che un po’ ti appartiene, che rispetti intimamente, tanto da voler cullare la solitudine di quel dolore evitandogli persino gli scossoni del viaggio.
Il messaggio del caporalmaggiore compone nella sua semplicità una lettera di consapevolezza e verità, una lettera d’amore, una missiva dal fronte, là dove le nuove trincee sono state scavate negli ospedali e nei forni crematori.
Bergamo e l’Italia tutta hanno ringraziato: “grazie per aver accompagnato la nostra gente, per averla onorata”; “hai reso onore e dignità ai defunti”; “grande uomo, hai il cuore grande della Sardegna”; “orgogliosa di essere sua connazionale”.
Si è generata un’ondata di commozione generale, perché l’umanità di questi tempi non è affatto una virtù scontata. Penso che un po’ di conforto l’abbia portato ai famigliari che hanno visto scomparire nel nulla i propri cari. Ha avuto un effetto consolatorio anche su di me: finché ci saranno uomini e donne come il caporalmaggiore Tomaso Chessa, per questo mondo ci sarà ancora speranza.