Bucchi: «Lavoro e dedizione è già la mia Dinamo»
di Andrea Sini
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Piero Bucchi, 64 anni, coach della DinamoIl coach dei sassaresi fa il punto a 50 giorni dal suo arrivo
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SASSARI. «Ho una fama da sergente della panchina, ma non mi ci riconosco granché. La verità è che il dialogo mi piace mentre urlare mi piace molto meno. E ho grande rispetto per chi lavora con impegno». Regole d’ingaggio chiare, ruoli definiti ma anche depenalizzazione dell’errore del singolo.
Per l’ennesima sfida della sua lunghissima carriera da allenatore, Piero Bucchi si è presentato con l’abito di sempre: quello della concretezza e dell’impegno. Il tecnico bolognese, in sella alla Dinamo da metà novembre, ha fatto appena in tempo a risollevare le sorti dei biancoblù, prima che la nuova ondata di contagi facesse saltare in aria i piani del club e dell’intera serie A.
Coach, com’è andato sinora il lavoro?
«In generale bene, la squadra sta lavorando con impegno e in palestra c’è armonia. Sono due punti di partenza fondamentali. Quindi posso ritenermi soddisfatto. Peccato però per il covid che ha interrotto il nostro percorso, al momento siamo fermi e non si può fare molto. Siamo riusciti solo a fare allenare per piccoli gruppi, secondo le direttive, i giocatori che non sono stati contagiati. Cerchiamo di ottimizzare i tempi, cercando di mantenere la serenità».
Serenità è un concetto fondamentale per spiegare la svolta che la Dinamo ha avuto dal momento del suo arrivo.
«Sono soddisfatto dell’approccio. Ripeto, vedo armonia e coesione. Le partite sinora sono state affrontate con la voglia di vincere, e questo secondo me è il concetto predominante: abbiamo sfiorato subito un paio di vittorie, perdendo con tiri sbagliati allo scadere. Questo significa che c’eravamo, che l’atteggiamento era giusto e ci siamo messi nella condizione di essere artefici del nostro destino. Poi i tiri a volte vanno dentro e altre volte no, sono un uomo di basket e lo accetto senza problemi».
Poi sono arrivate le vittorie con Venezia e Varese, che possono rappresentare una svolta nella stagione del Banco.
«È un punto di partenza, non certo di arrivo. Dobbiamo sistemare diverse cose e, come ho detto, sino al momento dello stop ci stavamo lavorando secondo me nel modo giusto. Nelle quattro gare di campionato giocate – perché la coppa vorrei cancellarla – non abbiamo mai subito in maniera vistosa. Poi ci sono anche gli avversari, non dobbiamo dimenticarlo».
Quali sono i primi aspetti sui quali è intervenuto?
«Ho limato qualcosa a livello tattico, ho cercato di dare chiarezza e punti di riferimento precisi, con l’obiettivo di semplificare le cose per essere più efficaci e meno cerebrali. In campo bisogna pensare ma a volte serve anche essere istintivi e aggressivi. Non siamo una squadra super atletica, quindi ho cercato di fare salire il livello di aggressività della squadra».
Il giorno della sua presentazione disse che aspettava da tempo questa chiamata. Cosa si aspetta, a medio termine, dalla sua avventura in Sardegna?
«Mi piacerebbe molto conquistare la fiducia dei tifosi, oltre che della società. Ho un contratto anche per l’anno prossimo, ma al di là delle carte vorrei riuscire a poter consolidare la mia presenza qui. Non sono venuto per sparare un colpo e via, sto cercando di creare basi solide. È un compito stimolante, Sassari è una piazza bellissima in cui lavorare. Il primo passo però è conquistare la fiducia dei giocatori, avere feeling con la squadra è la priorità ed è anche la sfida più importante e la più bella».
A 63 anni è attualmente il decano dei coach di serie A. Dopo averne viste tante, cosa la tiene ancora incollato al suo lavoro?
«Molto banalmente, la passione. Poter fare questo lavoro è una fortuna incredibile e me lo ripeto tutti i giorni, per questo non mi costa fatica andare in palestra. Allenare è una continua sfida e le sfide mi piacciono. Ogni giorno in palestra mi regala stimoli, gioia e divertimento. In più, lavorare con un gruppo volitivo rende tutto perfetto».
Come è cambiato il suo modo di allenare dagli anni Novanta a oggi?
«Tutti cambiano, così come è cambiato il basket e gli stessi giocatori. È fondamentale la curiosità, avere voglia di vedere tutto, di confrontarsi con gli altri colleghi e con le nuove teorie. La tecnologia permette di usufruire di contenuti a livello universale, poi ognuno di noi coach li elabora in maniera personale. Io guardo, leggo, prendo appunti, il mio impegno non si esaurisce in palestra. E cerco sempre di immedesimarsi nei giocatori, entrare nella loro testa è fondamentale per aiutarli a risolvere i problemi in campo».
Lei è davvero così duro come si dice?
«Io rispetto molto il lavoro degli altri e ammiro chi si impegna in maniera totale e lavora con dedizione. Arrabbiarmi fa parte del mio lavoro, ma non ho bisogno di urlare e so accettare l’errore. No, non credo di essere così duro».
A febbraio sarà ancora a fianco di Sacchetti in Nazionale?
«Spero proprio di sì, anche se sono completamente concentrato sulla Dinamo. Quando sono stato chiamato in azzurro in primavera mi ha fatto molto piacere. Stimo Meo e aver fatto parte della spedizione in Serbia e a Tokyo è stato fantastico, un’esperienza molto stimolante. Il presidente Petrucci mi aveva detto che quando senti l’inno provi un brivido particolare. È vero, e non vedo l’ora di riprovarlo».
Per l’ennesima sfida della sua lunghissima carriera da allenatore, Piero Bucchi si è presentato con l’abito di sempre: quello della concretezza e dell’impegno. Il tecnico bolognese, in sella alla Dinamo da metà novembre, ha fatto appena in tempo a risollevare le sorti dei biancoblù, prima che la nuova ondata di contagi facesse saltare in aria i piani del club e dell’intera serie A.
Coach, com’è andato sinora il lavoro?
«In generale bene, la squadra sta lavorando con impegno e in palestra c’è armonia. Sono due punti di partenza fondamentali. Quindi posso ritenermi soddisfatto. Peccato però per il covid che ha interrotto il nostro percorso, al momento siamo fermi e non si può fare molto. Siamo riusciti solo a fare allenare per piccoli gruppi, secondo le direttive, i giocatori che non sono stati contagiati. Cerchiamo di ottimizzare i tempi, cercando di mantenere la serenità».
Serenità è un concetto fondamentale per spiegare la svolta che la Dinamo ha avuto dal momento del suo arrivo.
«Sono soddisfatto dell’approccio. Ripeto, vedo armonia e coesione. Le partite sinora sono state affrontate con la voglia di vincere, e questo secondo me è il concetto predominante: abbiamo sfiorato subito un paio di vittorie, perdendo con tiri sbagliati allo scadere. Questo significa che c’eravamo, che l’atteggiamento era giusto e ci siamo messi nella condizione di essere artefici del nostro destino. Poi i tiri a volte vanno dentro e altre volte no, sono un uomo di basket e lo accetto senza problemi».
Poi sono arrivate le vittorie con Venezia e Varese, che possono rappresentare una svolta nella stagione del Banco.
«È un punto di partenza, non certo di arrivo. Dobbiamo sistemare diverse cose e, come ho detto, sino al momento dello stop ci stavamo lavorando secondo me nel modo giusto. Nelle quattro gare di campionato giocate – perché la coppa vorrei cancellarla – non abbiamo mai subito in maniera vistosa. Poi ci sono anche gli avversari, non dobbiamo dimenticarlo».
Quali sono i primi aspetti sui quali è intervenuto?
«Ho limato qualcosa a livello tattico, ho cercato di dare chiarezza e punti di riferimento precisi, con l’obiettivo di semplificare le cose per essere più efficaci e meno cerebrali. In campo bisogna pensare ma a volte serve anche essere istintivi e aggressivi. Non siamo una squadra super atletica, quindi ho cercato di fare salire il livello di aggressività della squadra».
Il giorno della sua presentazione disse che aspettava da tempo questa chiamata. Cosa si aspetta, a medio termine, dalla sua avventura in Sardegna?
«Mi piacerebbe molto conquistare la fiducia dei tifosi, oltre che della società. Ho un contratto anche per l’anno prossimo, ma al di là delle carte vorrei riuscire a poter consolidare la mia presenza qui. Non sono venuto per sparare un colpo e via, sto cercando di creare basi solide. È un compito stimolante, Sassari è una piazza bellissima in cui lavorare. Il primo passo però è conquistare la fiducia dei giocatori, avere feeling con la squadra è la priorità ed è anche la sfida più importante e la più bella».
A 63 anni è attualmente il decano dei coach di serie A. Dopo averne viste tante, cosa la tiene ancora incollato al suo lavoro?
«Molto banalmente, la passione. Poter fare questo lavoro è una fortuna incredibile e me lo ripeto tutti i giorni, per questo non mi costa fatica andare in palestra. Allenare è una continua sfida e le sfide mi piacciono. Ogni giorno in palestra mi regala stimoli, gioia e divertimento. In più, lavorare con un gruppo volitivo rende tutto perfetto».
Come è cambiato il suo modo di allenare dagli anni Novanta a oggi?
«Tutti cambiano, così come è cambiato il basket e gli stessi giocatori. È fondamentale la curiosità, avere voglia di vedere tutto, di confrontarsi con gli altri colleghi e con le nuove teorie. La tecnologia permette di usufruire di contenuti a livello universale, poi ognuno di noi coach li elabora in maniera personale. Io guardo, leggo, prendo appunti, il mio impegno non si esaurisce in palestra. E cerco sempre di immedesimarsi nei giocatori, entrare nella loro testa è fondamentale per aiutarli a risolvere i problemi in campo».
Lei è davvero così duro come si dice?
«Io rispetto molto il lavoro degli altri e ammiro chi si impegna in maniera totale e lavora con dedizione. Arrabbiarmi fa parte del mio lavoro, ma non ho bisogno di urlare e so accettare l’errore. No, non credo di essere così duro».
A febbraio sarà ancora a fianco di Sacchetti in Nazionale?
«Spero proprio di sì, anche se sono completamente concentrato sulla Dinamo. Quando sono stato chiamato in azzurro in primavera mi ha fatto molto piacere. Stimo Meo e aver fatto parte della spedizione in Serbia e a Tokyo è stato fantastico, un’esperienza molto stimolante. Il presidente Petrucci mi aveva detto che quando senti l’inno provi un brivido particolare. È vero, e non vedo l’ora di riprovarlo».