«Racconto il cuore di tenebra della ricca provincia italiana»
PIERGIORGIO PULIXI
Massimo Carlotto parla del suo nuovo romanzo, “E verrà un altro inverno” Un tradimento epocale in cui i padri lasciano ai figli solo un deserto di macerie
29 aprile 2021
5 MINUTI DI LETTURA
Il fallimento esistenziale come innesco per condotte e derive criminali. È questo il cuore tematico di “E verrà un altro inverno” (Rizzoli, 16,50 euro) il nuovo romanzo di Massimo Carlotto, questa volta ambientato nella “valle”, un operoso distretto economico-industriale del Settentrione, dove spadroneggiano l’élite dei capitani d’industria raggruppati in un pugno di famiglie della “buona società”. Carlotto racconta una storia che questa volta coinvolge delle persone “perbene”, come più volte si autodefiniscono durante la narrazione.
Non è più il tempo della criminalità organizzata, dei sicari prezzolati, di bande di rapinatori dell’Est. E nemmeno dei personaggi che hanno scelto di vivere ai margini della società, come quelli del romanzo “La signora del martedì” o della serie dell’Alligatore. Nell’ultimo noir targato Nero Rizzoli la storia si focalizza su persone del tutto inserite nella società valligiana. Come Bruno Manera e Federica Pesenti. All’apparenza una coppia felice. Lui è un ricco cinquantenne, lei, diciassette anni di meno, è l’erede di una dinastia di imprenditori, una delle famiglie che contano nella “valle”. Sotto le pressioni di Federica, Bruno accetta di trasferirsi in paese, varcando una linea di confine invisibile, che separa la città dalla provincia profonda, dove gli estranei non sono ben visti. Quando Manera comincia a subire una serie di gravi atti intimidatori, la situazione precipita, generando un effetto domino mortale che investirà diversi personaggi, fino a minacciare il buon nome della famiglia Pesenti. In soccorso di Manera arriva Manlio Giavazzi, un vigilante dal passato sfortunato, convinto che certe faccende vadano sistemate tra paesani. Sarà lui a operare dietro le quinte come un oscuro burattinaio scoprendo un vaso di Pandora da cui usciranno segreti inconfessabili, doppie vite, tradimenti, ferocia e bassezze morali a non finire. Ma in realtà nessuno fa nulla per niente. Dietro c’è sempre un interesse, palese o meno. E il crimine sembra l’unica soluzione per emanciparsi dalla mediocrità di un destino già scritto.
Ha scritto un romanzo circolare, una sorta di giostra di destini, con diversi personaggi, tutti accomunati dal fatto di considerarsi persone “normali” ma che in realtà non battono ciglio quando si tratta di delinquere.
«Esatto. Ho cercato di costruire un romanzo corale, perché mi interessava dare spazio ad alcuni personaggi in maniera assolutamente paritaria e affiancare una serie di personaggi minori che, nonostante il ruolo più defilato, sono molto importanti all’interno della vicenda, perché fanno da contrappunto a relazioni sociali che volevo evidenziare. Dal loro relazionarsi e dai vari conflitti volevo che emergesse un nodo tematico fondamentale: è cambiata la relazione tra crimine e società. La rappresentazione del crimine è diventata una sorta di cultura popolare, per cui la gente guarda le serie televisive e conosce/impara una serie di strategie investigative e quindi difensive che quando si trova a delinquere pone in essere, mutuandole da questa “cultura criminale mediatica”, che però ha pochissime attinenze con la criminalità reale. La cosa più interessante che volevo far affiorare è come spesso un fallimento esistenziale agisca come innesco per una condotta e una deriva criminale. Il punto cruciale però è la percezione del crimine: queste persone, chiamiamole “perbene”, non si ritengono mai dei criminali, nemmeno quando delinquono. Ritengono l’atto criminale come l’unica carta a loro disposizione per risolvere dei problemi. Problemi, come dicevo, spesso esistenziali, personali».
Cosa ha generato questa modificazione antropologica?
«Di sicuro la corruzione è stata la cinghia di trasmissione di questo crollo morale del Paese. E poi il tradimento generazionale. Dal dopoguerra in poi i padri hanno tradito i figli, che hanno dovuto reinventarsi costantemente un’esistenza. Questa incapacità di essere padri – ma dal punto di vista collettivo, intendo padri del Paese – ha prodotto dei danni incalcolabili. Ci troviamo così perché non abbiamo dei punti di riferimento morali forti o dei grandi esempi. Quando i giovani guardano agli adulti vedono un mondo corrotto, incapace di prendersi cura di se stesso e dell’ambiente. Un vero e proprio tradimento verso le giovani generazioni e quelle future. E questa è stata una costante della Storia italiana. Il problema è che questa frattura si sta allargando sempre di più».
Il microcosmo narrativo della valle, con tutte le sue contraddizioni e i suoi conflitti, sembra riflettere il Paese intero.
«Certamente. La valle per me è l’Italia di oggi. Quello che succede nella valle del romanzo accade nel Paese. E forse il simbolo della valle è proprio Jacopo Pesenti, il padre di Federica, che rappresenta la punta di diamante del peggio. Attraverso questo personaggio si comprende che cosa siano diventate quelle zone della provincia dove comandano le grandi famiglie, che prima erano dei latifondisti e poi sono diventati degli industriali. Sono famiglie che hanno determinato tantissimo il destino del nostro Paese, da tutti i punti di vista, non soltanto economico, ma anche dal punto di vista del potere e dei rapporti di potere. Questo perpetuare il potere continua nel tempo, non si modifica mai, e anche questo è un sintomo del peggio, perché vuol dire che non c’è mai una modernizzazione all’interno della società. Quella modernizzazione necessaria a rendere migliore il Paese, e che invece sembra una chimera».
È molto interessante il suo indagare alla base delle varie condotte criminali, salvo rendersi conto dell’inettitudine e della mediocrità di fondo di questi personaggi.
«È così. Molti sono personaggi che non aspirano nemmeno al potere. Cercano solo di elevarsi rispetto alla propria posizione sociale, di ribellarsi al destino. Nel mondo di oggi sembra quasi che il crimine sia uno strumento per risolvere problemi e contraddizioni, o perlomeno io in questo romanzo racconto questa particolare deriva. I moventi sono sempre gli stessi: il potere, il sesso e il denaro. Non cambiano mai. Né per quelli che diventano criminali all’interno di organizzazioni né per quelli che delinquono in maniera più “borghese” come i protagonisti e le protagoniste di questo romanzo. In questo contesto, per esempio, le donne sono perfettamente in grado di assumere potere all’interno delle famiglie. L’unica che non ha questo potere è Federica Pesenti. Per lei il discorso è diverso. Aveva perso il rapporto con la sua famiglia e il padre gliel’ha ricordato. Il padre interviene in maniera massiccia, per poi dirle: “Ora ricordarti di essere una Pesenti”».
Non è più il tempo della criminalità organizzata, dei sicari prezzolati, di bande di rapinatori dell’Est. E nemmeno dei personaggi che hanno scelto di vivere ai margini della società, come quelli del romanzo “La signora del martedì” o della serie dell’Alligatore. Nell’ultimo noir targato Nero Rizzoli la storia si focalizza su persone del tutto inserite nella società valligiana. Come Bruno Manera e Federica Pesenti. All’apparenza una coppia felice. Lui è un ricco cinquantenne, lei, diciassette anni di meno, è l’erede di una dinastia di imprenditori, una delle famiglie che contano nella “valle”. Sotto le pressioni di Federica, Bruno accetta di trasferirsi in paese, varcando una linea di confine invisibile, che separa la città dalla provincia profonda, dove gli estranei non sono ben visti. Quando Manera comincia a subire una serie di gravi atti intimidatori, la situazione precipita, generando un effetto domino mortale che investirà diversi personaggi, fino a minacciare il buon nome della famiglia Pesenti. In soccorso di Manera arriva Manlio Giavazzi, un vigilante dal passato sfortunato, convinto che certe faccende vadano sistemate tra paesani. Sarà lui a operare dietro le quinte come un oscuro burattinaio scoprendo un vaso di Pandora da cui usciranno segreti inconfessabili, doppie vite, tradimenti, ferocia e bassezze morali a non finire. Ma in realtà nessuno fa nulla per niente. Dietro c’è sempre un interesse, palese o meno. E il crimine sembra l’unica soluzione per emanciparsi dalla mediocrità di un destino già scritto.
Ha scritto un romanzo circolare, una sorta di giostra di destini, con diversi personaggi, tutti accomunati dal fatto di considerarsi persone “normali” ma che in realtà non battono ciglio quando si tratta di delinquere.
«Esatto. Ho cercato di costruire un romanzo corale, perché mi interessava dare spazio ad alcuni personaggi in maniera assolutamente paritaria e affiancare una serie di personaggi minori che, nonostante il ruolo più defilato, sono molto importanti all’interno della vicenda, perché fanno da contrappunto a relazioni sociali che volevo evidenziare. Dal loro relazionarsi e dai vari conflitti volevo che emergesse un nodo tematico fondamentale: è cambiata la relazione tra crimine e società. La rappresentazione del crimine è diventata una sorta di cultura popolare, per cui la gente guarda le serie televisive e conosce/impara una serie di strategie investigative e quindi difensive che quando si trova a delinquere pone in essere, mutuandole da questa “cultura criminale mediatica”, che però ha pochissime attinenze con la criminalità reale. La cosa più interessante che volevo far affiorare è come spesso un fallimento esistenziale agisca come innesco per una condotta e una deriva criminale. Il punto cruciale però è la percezione del crimine: queste persone, chiamiamole “perbene”, non si ritengono mai dei criminali, nemmeno quando delinquono. Ritengono l’atto criminale come l’unica carta a loro disposizione per risolvere dei problemi. Problemi, come dicevo, spesso esistenziali, personali».
Cosa ha generato questa modificazione antropologica?
«Di sicuro la corruzione è stata la cinghia di trasmissione di questo crollo morale del Paese. E poi il tradimento generazionale. Dal dopoguerra in poi i padri hanno tradito i figli, che hanno dovuto reinventarsi costantemente un’esistenza. Questa incapacità di essere padri – ma dal punto di vista collettivo, intendo padri del Paese – ha prodotto dei danni incalcolabili. Ci troviamo così perché non abbiamo dei punti di riferimento morali forti o dei grandi esempi. Quando i giovani guardano agli adulti vedono un mondo corrotto, incapace di prendersi cura di se stesso e dell’ambiente. Un vero e proprio tradimento verso le giovani generazioni e quelle future. E questa è stata una costante della Storia italiana. Il problema è che questa frattura si sta allargando sempre di più».
Il microcosmo narrativo della valle, con tutte le sue contraddizioni e i suoi conflitti, sembra riflettere il Paese intero.
«Certamente. La valle per me è l’Italia di oggi. Quello che succede nella valle del romanzo accade nel Paese. E forse il simbolo della valle è proprio Jacopo Pesenti, il padre di Federica, che rappresenta la punta di diamante del peggio. Attraverso questo personaggio si comprende che cosa siano diventate quelle zone della provincia dove comandano le grandi famiglie, che prima erano dei latifondisti e poi sono diventati degli industriali. Sono famiglie che hanno determinato tantissimo il destino del nostro Paese, da tutti i punti di vista, non soltanto economico, ma anche dal punto di vista del potere e dei rapporti di potere. Questo perpetuare il potere continua nel tempo, non si modifica mai, e anche questo è un sintomo del peggio, perché vuol dire che non c’è mai una modernizzazione all’interno della società. Quella modernizzazione necessaria a rendere migliore il Paese, e che invece sembra una chimera».
È molto interessante il suo indagare alla base delle varie condotte criminali, salvo rendersi conto dell’inettitudine e della mediocrità di fondo di questi personaggi.
«È così. Molti sono personaggi che non aspirano nemmeno al potere. Cercano solo di elevarsi rispetto alla propria posizione sociale, di ribellarsi al destino. Nel mondo di oggi sembra quasi che il crimine sia uno strumento per risolvere problemi e contraddizioni, o perlomeno io in questo romanzo racconto questa particolare deriva. I moventi sono sempre gli stessi: il potere, il sesso e il denaro. Non cambiano mai. Né per quelli che diventano criminali all’interno di organizzazioni né per quelli che delinquono in maniera più “borghese” come i protagonisti e le protagoniste di questo romanzo. In questo contesto, per esempio, le donne sono perfettamente in grado di assumere potere all’interno delle famiglie. L’unica che non ha questo potere è Federica Pesenti. Per lei il discorso è diverso. Aveva perso il rapporto con la sua famiglia e il padre gliel’ha ricordato. Il padre interviene in maniera massiccia, per poi dirle: “Ora ricordarti di essere una Pesenti”».