La Nuova Sardegna

Arriva nelle sale il Muto di Gallura, Andrea Arcangeli: «Tansu? Emarginato, non solo assassino»

Alessandro Pirina
Arriva nelle sale il Muto di Gallura, Andrea Arcangeli: «Tansu? Emarginato, non solo assassino»

L’attore interpreta il leggendario bandito narrato da Costa. «Già oggi è difficile crescere diversi, figurarsi nell’800»

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Il divin Codino diventa il leggendario muto di Gallura. Andrea Arcangeli, tra gli attori più gettonati delle ultime stagioni cinematografiche - dalla serie Sky "Romulus" al film su Baggio - arriva in sala nei panni di Bastiano Tansu, il bandito che seminò il terrore nella Gallura di metà Ottocento. Il film, diretto dall'esordiente Matteo Fresi, prodotto da Fandango, dopo il passaggio al Torino film festival - unico titolo italiano in concorso - sarà nei cinema isolani dal 24 marzo, mentre dal 31 nel resto del Paese.

Andrea, quando è arrivata la proposta aveva mai sentito parlare del Muto di Gallura?
«In verità non la conoscevo, ma mi ci è voluto poco per capire quanto invece fosse importante per molti sardi, cresciuti con i racconti di Bastiano e le sue gesta violente e prodigiose allo stesso tempo».

Cosa l'ha colpita di questo personaggio?
«La sua grande umanità. Se all'inizio l'idea era di dover raccontare la storia di un assassino, con l'andare avanti dello studio mi sono accorto di quanto fosse la storia di un emarginato, di un ragazzo come altri, ma cresciuto nella convinzione indotta di essere un mostro, una bestia. È difficile ancora al giorno d'oggi crescere come un "diverso", per cui ho provato a immaginare quanto potesse esserlo in un'epoca brutale come quella della Sardegna dell'Ottocento».

Film drammatico, storico, con atmosfere western: se dovesse catalogarlo in un genere?
«Penso sia piuttosto difficile da catalogare. Ha molti riferimenti di genere, dal western, all'epica, al dramma storico. Forse la sua forza sta proprio nel riuscire a fonderli, e dare vita a un prodotto nuovo, in cui la forza del racconto ricorda a tratti anche le vicende degli eroi tragici dell'antica Grecia, o del teatro elisabettiano. Sicuramente il grande pregio di questo film è essere riuscito a restituire la veridicità storica di una vicenda e allo stesso tempo raccontare quella atmosfera di solennità a tratti magica propria delle leggende e dei luoghi della Sardegna».

Bastiano non sente e soprattutto non parla. È stato più difficile interpretarlo rispetto agli altri personaggi?
«È stato diversamente difficile. Volevo restituire veridicità, per cui mi sono incontrato più volte con i ragazzi che gestiscono un'associazione per sordi e ho provato insieme a loro a immaginare una maniera di comunicare che potesse essere credibile in un'epoca e in un luogo in cui il linguaggio dei segni non era ancora diffuso. Ho cercato molte reference, e con mia sorpresa ho trovato tanta ispirazione nel cinema asiatico degli anni '90/2000, in cui spesso venivano raccontati personaggi sordi; mi piaceva soprattutto il loro modo di narrare il mondo interiore di questi personaggi».

Il film è tutto in gallurese: ha imparato qualche parola?
«A furia di sentirlo parlare stava entrando anche nelle mie orecchie. Ma mi ha stupito vedere come persino i colleghi sardi, non galluresi, avessero bisogno del dialogue coach per il dialetto del luogo, a dimostrazione di quanto sia complessa e particolare la lingua sarda».

Unico ad arrivare da oltre Tirreno in un cast tutto sardo: si è sentito un po' "straniero"?
«In realtà è stato bello venire trasportato in un mondo nuovo. Anzi spesso approfittavo dei miei colleghi per farmi raccontare di questa regione per me abbastanza sconosciuta. E diciamo che l'effetto è servito: l'estate scorsa sono stato in Sardegna e l'ho girata per una settimana da solo in moto».

Cosa le hanno lasciato quelle settimane di set immerso tra querce e rocce galluresi?
«Sicuramente questo film non poteva essere girato in altri posti che quelli. Ma al di là della correttezza storiografica, in quei luoghi veramente si respira un'aria di magica leggenda. La natura sarda, e quella gallurese in particolare, sembrano luoghi non reali, appartenenti a dimensioni altre, in cui tutti quello che vedi sembra come sospeso. Per questo è stato fondamentale andare a visitare le location le settimane prima di girare, mi hanno aiutato a capire in quale mondo magico stavamo entrando per raccontare la nostra storia».

"Trust" di Danny Boyle e "Romulus" di Matteo Rovere sono due tappe fondamentali della sua carriera: per un attore della sua generazione esistono ancora differenze tra cinema e tv?
«Ci sono prodotti di altissimo livello sia al cinema che in televisione. Ho sempre pensato che la tv di livello che si fa adesso dà modo anche ai personaggi secondari di emergere, e le loro storyline possono sviscerarsi e prendere la scena. Tantissimi registi di alto livello si cimentano con le produzioni tv, sono altri metodi di racconto, con modalità ancora diverse dal cinema, e per chi fa il raccontastorie di mestiere questo è oro colato».

Nel 2021 è stato il "divin Codino". Cosa le ha detto Roberto Baggio dopo avere visto il film?
«Mi ha chiamato per ringraziarmi, era molto emozionato. Era venuto sul set più volte, e ci eravamo visti e sentiti in più occasioni. Entrare in contatto con esseri umani come lui è tra i più bei regali della vita, molto più di lustri e riconoscimenti».

Dopo la pandemia la guerra: quale ruolo può giocare il cinema in questo momento?
«Continuare a fare quello che ha sempre fatto. Il cinema è stato sempre uno dei più grandi alleati dell'essere umano, e ha sempre superato tutto quello gli ha sbarrato la strada. Il cinema è essenziale come la vita, perché il cinema è la vita, è una manifestazione di essa, come l'arte, la scrittura, e perciò inscindibile da tutto ciò che noi siamo. Il cinema serve a educarci, a istruirci, a svagarci, a conoscerci, a conoscere gli altri, per cui non possiamo che rimetterci nelle sue mani e lasciare che esso attui la sua azione lenitiva come ha sempre fatto. Bisogna solo dargli fiducia di questi tempi ecco, questo mi sento di dire».

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