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L’anniversario

Trent’anni senza Kurt Cobain, l’ultima icona del rock

di Luca Rojch
Trent’anni senza Kurt Cobain, l’ultima icona del rock

Il tormentato leader dei Nirvana moriva il 5 aprile del 1994: sentiva il successo planetario come il tradimento dei suoi fan

05 aprile 2024
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Sassari Nel 1994 a 27 anni Kurt Cobain e i suoi Nirvana avevano rivoluzionato il pianeta musicale. In soli 5 anni e con appena tre dischi il trio di Seattle aveva conquistato il mondo. Spazzati via i chitarroni e i capelli permanentati dell’heavy metal e i loro testi pieni di sessismo ed edonismo anni Ottanta. Il cuore nero del Grunge aveva celebrato la sua generazione disperata. Con la stessa violenza nichilistica del “no future” del punk, ma con in più il disincanto e la disillusione di una generazione depressa, ai margini. Kurt Cobain incarnava lo spirito di quell’epoca. Era diventato un’icona, il simbolo commerciale del disagio dei Novanta e questo era ciò che odiava di più.

All’apice del successo, con oltre 30 milioni di dischi venduti fino a quel momento, il 5 aprile del 1994 Cobain si toglie la vita con un colpo di fucile nel capanno davanti alla sua villa a Seattle. Nel suo sangue tracce massicce di eroina, da cui era dipendente. Il suo corpo viene scoperto solo tre giorni dopo da un elettricista che doveva controllare l’impianto di sicurezza. Accanto al corpo una lettera in cui emergeva il male di vivere che affliggeva il cantante. Il successo planetario vissuto come un tradimento nei confronti dei fan.

Cobain sognava di essere il leader di un gruppo musicale che combatteva lo star system e portava avanti le battaglie per gli ultimi della società. Era diventato una macchina da soldi, ingoiato dallo star system che odiava e lo aveva trasformato in una celebrità planetaria che doveva sfornare hit da classifica. Un senso di alienazione che Cobain espresse nella canzone “Verse chorus verse” che indicava la struttura di una canzone, o meglio di tutte le canzoni. L’omologazione, la serializzazione dell’arte era ciò che più angosciava l’artista Cobain. Come quella continua sottolineatura della propria diversità, che era il vero spirito, l’essenza di quella generazione. “Io non sono come loro, ma posso fare finta”, cantava in Dumb.

Cobain percepiva il suo successo come un fallimento. Un tradimento di chi lo ascoltava e vedeva in lui un modello da seguire. Come scrisse Douglas Coupland «negli anni Novanta la cosa peggiore per un artista era vendersi. Se facevi qualcosa che piaceva alle masse era un problema». L’attenzione mediatica lo stritolava. I riflettori sulla sua vita privata, il matrimonio con Courtney Love, la sua dipendenza dall’eroina, la morbosa curiosità persino sulla figlia Frances Bean, nata nel 1992. Il leader dei Nirvana ha ceduto. La sua vena autodistruttiva ha preso la scena. Il primo tentativo di suicidio a Roma nel marzo del 1994 è rimasto un segnale disatteso. Poi la tragica fine appena un mese dopo. E forse per questo che il 5 aprile 1994 è la data della fine del rock. La musica è diventata l’esatto opposto di quello che Cobain immaginava e per cui non si sentiva abbastanza. Le rockstar vivono sui social e la loro permanenza è garantita solo dal consenso, al di là della capacità di comunicare qualcosa con la loro arte. Cobain rimane un’icona ancora viva della musica non per essere entrato nel non troppo ambito “club 27”, ma perché i Nirvana restano l’ultima grande rivoluzione della musica rock. E per chi avesse dubbi basta scorrere la lista dei gruppi che si esibiscono nei più grandi festival musicali del pianeta. Da Glastonbury a Coachella. Spesso somigliano a revival fuori tempo degli anni Novanta.

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