La Nuova Sardegna

Olbia

L’impianto

Olbia, dopo il raid vandalico a San Vittore arrivano le telecamere

di Dario Budroni

	Don Francesco Tamponi e il comitato di San Vittore (foto Vanna Sanna)
Don Francesco Tamponi e il comitato di San Vittore (foto Vanna Sanna)

Sono state installate attorno alla chiesa campestre dopo la donazione da parte di una società privata

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Olbia L’antica chiesetta immersa nel verde della periferia non sarà mai persa di vista. Dopo il raid vandalico di fine febbraio, adesso arrivano le telecamere di videosorveglianza. Le ha donate e installate una società privata, la Digito 2S di Olbia: un regalo fatto al comitato che organizza la festa campestre dopo che qualcuno si era intrufolato nella chiesa ai piedi di Monte Plebi per spezzare i rosari, piegare i candelabri, rovesciare i vasi di fiori e spostare croci e simulacro del santo. La chiesa di San Vittore, uno dei luoghi più cari agli olbiesi, da ora in poi sarà dunque videosorvegliata. A illustrare il progetto è don Francesco Tamponi, il direttore dell’Ufficio beni culturali della Diocesi. «Se qualche imbecille dovesse tornare qui, verrebbe ripreso dalle telecamere» avverte senza troppi giri di parole il sacerdote.

Le telecamere. La società Digito 2S si è fatta avanti appena letta la notizia del raid vandalico. Non solo ha donato l’impianto di videosorveglianza, ma lo ha anche installato. «Per fortuna i danni non sono stati troppi – spiega don Tamponi –. Ma è stato distrutto molto di più. Uso una espressione truce: è stato come scuoiare la propria madre. Questo accade quando si toccano i luoghi del cuore». Una donazione, quella della Digito 2S, naturalmente subito accolta dal comitato di San Vittore, dalla Diocesi e dai frati della parrocchia di Sant’Ignazio, della quale la chiesetta fa parte. «Una azione propositiva che si oppone a chi, in modo barbaro, vuole distruggere e violentare le nostre memorie, il nostro cuore e la nostra identità». Scartata fin da subito l’idea di chiudere le porte della chiesa. Il motivo è semplice: in Gallura esiste una antica tradizione che vuole sempre aperte le chiesette di campagna. «Si bussa tre volte, si entra in solitudine e in silenzio si parla, attraverso i santi, con Dio. Noi ci teniamo a tenere questa tradizione in piedi» spiega don Tamponi. Una tradizione che affonda le radici nei secoli, quando le chiese campestri, luoghi extra moenia, garantivano asilo a chiunque, anche ai banditi.

Luogo del cuore. Quella di San Vittore non è una chiesa campestre qualunque. È dedicata al primo vescovo storico della Diocesi gallurese, vissuto nel sesto secolo dopo Cristo e chiamato da papa Gregorio I a rinvigorire la comunità cristiana locale, convertendo anche gli ultimi pagani, dopo la caduta dell’impero romano e la distruzione della vecchia città da parte dei Vandali. La chiesetta, costruita in epoca medievale e più volte restaurata e modificata, rappresenta così una pagina importante di storia e devozione. Proprio qui si tiene una festa particolarmente sentita, alla quale il comitato presieduto da Pietro Idili, 92 anni, sta lavorando con tutte le sue energie. Ormai manca poco, visto che si svolgerà come sempre nei primi giorni di maggio, prima di San Simplicio. «È una festa che è entrata nel cuore e che è seconda solo a quella di San Simplicio» sottolinea don Tamponi. In programma, come sempre, celebrazioni, processioni, balli e canti. Il pezzo forte sarà naturalmente il grande pranzo a base di pecora in cappotto. Un gigantesco banchetto che richiama ogni anno anche quattromila persone.

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