La Nuova Sardegna

Il nuovo romanzo di Marcello Fois

Alessandro Marongiu
Marcello Fois, autore del romanzo «Nel tempo di mezzo»
Marcello Fois, autore del romanzo «Nel tempo di mezzo»

Il secondo capitolo della saga della famiglia Chironi

08 marzo 2012
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«Nel tempo di mezzo» (Einaudi), il nuovo romanzo di Marcello Fois, sarà presentato domani alle 18 in anteprima nazionale a Nuoro nell'aula magna del liceo classico «Asproni». Presente l'autore, il libro sarà presentato da Giovanni Maria Bellu; coordina Pietro Monni; letture e accompagnamento musicale a cura dei ragazzi del liceo «Asproni».

Alla fine s'è deciso, Vincenzo, a lasciare quella Trieste in cui ha passato i primi ventisette anni della sua vita, per cercare nell'isola i suoi parenti, i Chironi di Nuoro. Sapeva da più di tre lustri, da quando Padre Vesnaver e il notaio Plesnicar gli presentarono due fogli sdruciti con tutte le informazioni disponibili sulle sue origini (il documento di riconoscimento da parte del padre Luigi Ippolito, una lettera della madre Sut Erminia), che laggiù in Sardegna poteva esserci qualcuno ad aspettarlo: ma solo ora che gli è chiaro che non prenderà i voti, come tutti speravano, perché nonostante i sette anni in seminario la vera vocazione non s'è manifestata, ha trovato il coraggio e ha scelto di andare incontro al suo destino. Inizia così «Nel tempo di mezzo» (Einaudi, 272 pagine, 20 euro, esce il 13 febbraio ma domani a Nuoro viene presentato in anteprima nazionale), il nuovo romanzo di Marcello Fois, che continua a raccontare le vicende della famiglia Chironi da dove la prima parte della narrazione, «Stirpe» (2009), s'era fermata.

Vincenzo attraversa a piedi un buon pezzo d'Italia devastata dalla guerra, sale sul traghetto che parte da Livorno, e arriva. Dove - in quale tempo, in quale luogo, in quale dimensione -, davvero non saprebbe dirlo: gli pare solo che si tratti di un mondo rovesciato, in cui lo accolgono odori acidi (di zolfo, di ferro incandescente, di alito putrido, di carcasse rimaste incastrate «sul fondo roccioso delle forre») che gli penetrano il naso da ogni direzione, la più totale assenza di cicatrici del conflitto, che qui non è passato e di cui qui s'è a malapena sentito parlare («La condizione di periferia l'aveva salvata dalle bombe, ma anche dall'indigenza: si era trattato di procedere come se attorno non succedesse niente. Tuttavia, fu proprio quella relativa incoscienza a farne un luogo tanto speculativo. Perché rifiutare la realtà, qualche volta significa concepire alternative temerarie [...]. Lì era come trovarsi in un tempo sospeso a metà, nel tempo di mezzo, non moderni, non antichi, ma sensibili, esposti al contagio»), e un'immobilità e un silenzio innaturali e afflitti che gli riuscirebbero del tutto nuovi e incomprensibili se non avesse tanta confidenza con la Bibbia e non avesse idea di cos'è il Purgatorio, ma che comunque non si aspettava di conoscere in Terra. Ma lo accolgono, anche, Michele Angelo e Marianna: che, nonno e zia di Vincenzo, sono tutto quello che resta della sua famiglia, e cioè tutto quello che ha al mondo.

Quando si trova davanti quel giovane, nonostante la somiglianza strabiliante («quella paternità si era risolta con un calco perfetto d'espressione e forma: fronte, bocca e naso esatti; di segno e disegno: sopracciglia e attaccatura del ciuffo esatti; di colore e tono: pallore compatto d'avorio, capelli neri fino al blu») il vecchio patriarca non si lascia però ingannare: sa che non può trattarsi di Luigi Ippolito, il figlio perduto sul Carso nell'altra guerra, la Prima, ma lo stupore e la gioia in lui sono comunque incontenibili. Ed è proprio per questo motivo che vorrebbe invece lasciarsi ingannare, abbandonarsi all'idea che per la stirpe nata bacata e finita dissecata cui ha dato origine e per cui s'è inventato una storia remota (un tempo Quiròn di Spagna, poi Kirone, poi definitivamente Chironi), ci sia un momento di tregua dalla sorte avversa, una possibilità, almeno una possibilità, di felicità. Ma lui, che ha già perso sei figli, la moglie e una nipote, che ha pagato col dolore tutto ciò che, pure legittimamente, s'è guadagnato in vita, sa che alla sorte non ci si sottrae, e che la storia, la sua storia («Lui stesso, all'età di nove anni, era stato portato via dall'orfanotrofio. Lui stesso aveva guardato intorno a sé nella casa di Giuseppe Mundula - l'uomo che lo aveva allevato e instradato verso il mestiere di fabbro - con gli stessi occhi con cui, ora, Vincenzo guardava casa sua»), non può che ripetersi. Sa che quel dono del Cielo che gli è piovuto in casa senza preavviso, quel Chironi inaspettato che riporta pian piano il colore sulla guance della figlia Marianna, è un Chironi come tutti gli altri: segnato nella sconfitta per il solo fatto di essere al mondo, e più ancora per l'incapacità di accontentarsi del presente, sognando senza averne diritto chissà quale futuro. E questo a dispetto delle intenzioni e della bontà d'animo, della saggezza che alberga in lui fin dall'infanzia, del suo mettersi al servizio della terra che lo accoglie ripulendola dalle piaghe (cavallette, zanzare e malattie conseguenti), del suo contributo alla crescita e alla modernizzazione di Nuoro, e soprattutto a dispetto dell'amore per la futura moglie, Cecilia Devoto, «profuga di lusso, ma profuga» esattamente come lui, che non genererà, forse, se non sofferenza.

Rispetto a «Stirpe», romanzo che apriva la trilogia dedicata alla famiglia forgiata, è proprio il caso di dirlo, dal fabbro Michele Angelo Chironi, «Nel tempo di mezzo» ha un respiro diverso, più pacato, perché non vi si assommano tutti i personaggi e gli eventi del capitolo precedente: un respiro più intimo e meno universale, in sostanza. Ma anche al netto - forse inevitabile per uno scrittore così attento al peso della parola - di qualche sporadico eccesso verbale («Le terre quanto più sono antiche tanto più si concentrano, sono grumi calcificati nella Pangea; le nuove, ampie, terre invece, sono epidermidi sottili e delicate di neonati esposti a ogni trasformazione. Sono spazi dove il meccanismo, che ha tutto ancora da imparare, si fa cavilloso, non accetta l'insondabile, crede ogni avvenimento quantificabile e perfetto nella sua prevedibilità. È l'anzianità che smette di credere a questa perfezione, dimostrando in se stessa che non c'è niente di perfetto in un corpo che si consuma»; parte delle pagine finali). A restare inalterata, ciò che più importa, è la qualità del lavoro di Fois, sempre estremamente alta. E a risaltare, sfrondata di tutte le ascendenze più o meno evidenti, è ancora la sua personalità di autore.
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