La Nuova Sardegna

Moby Prince, l'armatore Vincenzo Onorato: "Fu una bomba a causare la strage"

Alessandro Pirina
L'armatore Vincenzo Onorato
L'armatore Vincenzo Onorato

L'imprenditore proprietario della Navarma esce dal silenzio: "Mai creduto all'errore umano, Chessa era il miglior comandante con cui ho navigato"

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SASSARI. Sono passati trent'anni dalla strage del Moby Prince. E ancora oggi quella tragedia costata la vita a 140 persone non ha trovato giustizia. Ci sono state diverse sentenze, c'è stata una commissione parlamentare, a Livorno è stata ora aperta una nuova inchiesta, ma sul disastro del 10 aprile 1991 nessuno è riuscito a fare piena luce. Ai tempi Vincenzo Onorato era un giovane armatore di 34 anni e il Moby Prince era l'ammiraglia della Navarma, la sua piccola flotta. Oggi, 64 anni, è il signore dei mari, anche se le sue grandi flotte, Moby e Tirrenia, non navigano in acque per nulla tranquille, visto che sull'ex compagnia di Stato pende un'istanza di fallimento che si deciderà nelle prossime settimane. Per 30 anni Onorato ha scelto il silenzio sulla strage di 140 innocenti diretti a Olbia e morti tra le fiamme un paio di miglia dopo la partenza da Livorno. Ma a pochi giorni dal trentennale ha deciso di parlare, dire la sua verità. L'armatore napoletano non ha dubbi: a provocare la tragedia del Moby Prince fu una bomba.Onorato, riavvolgiamo il nastro al 10 aprile 1991.

Quando venne a sapere dell'incidente?

«Era notte inoltrata, molto inoltrata. Mi chiamò Boi, il comandante di armamento della Navarma, e mi disse che c'era stato un incidente con una petroliera. Parlarono di una bettolina, ma non si aveva alcuna notizia del Moby Prince che era partito poco prima dal porto. Presi l'auto e partii per Livorno. Arrivai alle prime luci dell'alba quando ormai il fatto della collisione era accertato».

La sua prima reazione?

«Facendo una sintesi, posso dire che provai l'orrore dell'incredulità. Allora io ero molto giovane e navigavo sulle due navi ammiraglie della flotta e nell'equipaggio c'erano molti miei amici. Pensavo a loro, ai passeggeri, tra cui c'erano altri due amici. La mia prima impressione fu proprio quella di non credere che potesse essere accaduto veramente».

Dopo trent'anni che idea si è fatto di quello che successe a Livorno?

«Un'idea chiara ce l'ho e l'ho detta in più sedi. Se non avessi navigato con quell'equipaggio avrei anche potuto avere dei dubbi. Ma con loro io avevo navigato a lungo. A partire dal comandante Ugo Chessa. Non lo dico perché è venuto a mancare, ma è il miglior comandante con cui ho navigato. Lo dico con affetto: al comando era un barbaricino. Il ponte di comando era una sorta di tempio in cui non si poteva neanche fiatare. Io avevo assistito tante volte alle uscite dal porto di Chessa e il fatto che quella notte la nave sia andata contro una petroliera è totalmente inspiegabile. È proprio quella incredulità dell'assurdo. Con Chessa era impossibile potesse succedere. Ma ho anche un'altra certezza...».

E cioè?

«Chessa era ancora sul ponte di comando. Quando usciva dal porto lui chiedeva sempre ai suoi ufficiali sul ponte un doppio rilevamento dei bersagli, ossia delle altre navi: uno ottico e uno sui radar. Solo a quel punto lasciava il comando a un altro ufficiale. La dinamica della collisione è sempre stata inspiegabile».

Alla commissione d'inchiesta ha detto di avere fatto una seduta spiritica per cercare di capire cosa fosse successo.

«Confermo, non riuscivo a darmi una risposta ed è anche per questo che non ne ho mai parlato. È una vicenda assurda che Chessa sia uscito dal porto e abbia centrato una petroliera, che sul radar non è un puntino ma un ferro da stiro».

Eppure da subito il dito è stato puntato contro il comandante e l'equipaggio: si disse che stavano guardando la partita della Juventus.

«Purtroppo è partita subito una disinformazione che ha creato tanto dolore a tutti e mi ha portato quasi alla follia. Perché io conoscevo quelle persone, conoscevo Chessa. In privato ci davamo del tu, in pubblico del lei. Una volta salii sul ponte e mi misi a parlare con il timoniere. Chessa si voltò verso di me: "dottor Onorato, se viene sul ponte a fare casino sarò costretto a sbatterla fuori". Questo era Chessa. Che sia uscito dal porto e abbia preso una petroliera è impossibile. Quella fu la prima disinformazione vergognosa, ma ce ne fu una seconda più tecnica».

La nebbia?

«Non entro nel merito se c'era o non c'era, ma era totalmente ininfluente per un comandante e una prima guardia come quella del Moby Prince. Purtroppo la causa della nebbia è stata sancita la mattina del disastro ed è rimasta tale».

La mattina del disastro?

«Io ricordo i fatti, non faccio opinioni. Io la mattina ero lì, passai nell'ufficio dell'ammiraglio Albanese (ai tempi comandante della capitaneria di porto, ndr). Dopo un po' arrivò il ministro e mi cacciarono letteralmente fuori. La conversazione durò un quarto d'ora, 20 minuti. Come detto non ho assistito alla stessa, ma ne ho ancora registrata in testa la durata. Appena il ministro andò via - la nave non era neanche tornata in porto - nella loro riunione era già stato stabilito che a causare la strage fosse stata la nebbia, l'errore umano».

Chi era il ministro?

«Carlo Vizzini».

Anche le conclusioni processuali hanno parlato di errore umano.

«Io non ci credevo per nulla. È stato un periodo di smarrimento totale, non trovavo una spiegazione. Ma improvvisamente ho avuto una illuminazione su quanto accaduto: se uno dei periti nominati dal Tribunale e cioè Massari, accreditato dall'Interpol - e dunque non Vincenzo Onorato - dice che c'era una bomba a bordo, allora la collisione è spiegata».

Una bomba?

«In un video di un passeggero (Angelo Canu, morto insieme alla moglie e alle figlie di 5 anni e 15 mesi, ndr) poco prima di interrompersi si sente un boato. Se fosse stato dovuto alla collisione chi faceva le riprese sarebbe caduto in terra, visto che la nave andava a 40 chilometri orari. Invece, l'operatore non cadde a terra e quindi fu un boato ante collisione. Immaginiamoci sulla plancia. La nave è verso l'uscita dal porto quando esplode la prua. Il comandante non vede più nulla, pensa a una collisione, mette il timone a dritta e va contro la petroliera. Ecco la spiegazione della vicenda».

Scusi, perché una bomba?

«Contestualizziamo il fatto. C'è la guerra del Golfo, siamo vicini a Camp Darby (la base militare americana a pochi chilometri da Livorno, ndr). La bomba si trovava nel locale del motore delle eliche di manovra, a prua. Chi l'ha messa doveva conoscere bene la nave, ma non intendeva provocare una strage, altrimenti l'avrebbe messa in una borsa abbandonata nel salone passeggeri. È esplosa la prua, ma a provocare la tragedia è stato quanto successo dopo».

Glielo richiedo: perché sarebbe stata messa una bomba sulla nave?

«Io non lo posso sapere, ma c'era la guerra del Golfo, la situazione in politica estera era estremamente difficile, c'erano navi sconosciute in rada. Ma soprattutto non lo dico io, ma il perito dell'Interpol».

Se riteneva da subito che il Moby Prince non avesse colpe nella collisione perché ha firmato un accordo segreto con la Snam per assumervi entrambi la responsabilità?

«Per prima cosa l'accordo non era segreto, ma fu reso noto. Anche in questo caso dobbiamo contestualizzare la vicenda. Era successo che c'erano 140 morti, dei quali molti tra marittimi e passeggeri erano gli unici a lavorare in famiglia. Per evitare che finisse come in tutti i disastri italiani - Ustica docet - abbiamo parlato con Snam e abbiamo deciso di dividerci la responsabilità dei risarcimenti per poter liquidare rapidamente gli stessi ai familiari delle vittime. Si decise di non attendere l'esito dei vari giudizi per vedere di chi fosse la responsabilità. Navarma si assunse l'onere di risarcire i parenti delle vittime e Snam di rimborsare tutti i costi antinquinamento. Quell'accordo si è rivelato valido nella propria ratio. Se non lo avessimo fatto, i familiari delle vittime dopo 30 anni non avrebbero avuto ancora nulla. Preciso che questi risarcimenti furono erogati dalla compagnia assicuratrice dei rischi verso terzi, lo Standard Club - con sede legale alle Bahamas e sede operativa a Londra - che è una delle maggiori - se non la maggiore - assicurazioni di questi rischi nel settore navale a livello mondiale e che assicura la quasi totalità delle navi. In virtù di una specifica norma del codice della navigazione avremmo potuto avvalerci di una limitazione dell'importo complessivo di questi risarcimenti pari a un quinto del valore della nave, cioè 4 miliardi di lire, e invece, senza che nessuno ce lo avesse chiesto, rinunciammo spontaneamente a questo diritto e ottenemmo che facesse altrettanto lo Standard. Ciò consentì di liquidare risarcimenti che andarono ben oltre questo limite e la Navarma, unitamente allo Standard, ne sopportò i costi - e tuttora li sopporta Moby - quando di anno in anno si rinnovano le polizze perché ci sono ancora gli effetti derivanti da quei maggiori risarcimenti».

L'assicurazione pagò 20 miliardi a Navarma per una nave che, si dice, ne valesse non più di 7,5.

«Guardi, 20 miliardi era il valore della nave. Non so proprio chi possa aver sostenuto il contrario e soprattutto su quali basi. Le assicurazioni che coprono le navi sono specialistiche e quindi sono bene a conoscenza del reale valore di mercato e mai assicurerebbero traghetti per il triplo del loro valore. L'assicurazione che copriva questo tipo di rischio, cioè la perdita della nave - cosa diversa dalla responsabilità civile verso terzi di cui abbiamo parlato prima - era la Unione mediterranea di sicurtà, che all'epoca era la prima compagnia assicuratrice navale italiana. Chi confonde le due vicende assicurative che erano completamente indipendenti o è un ignorante o semplicemente in malafede. Purtroppo in questa orribile vicenda di pseudo esperti ne ho visti tanti».

Dalla commissione d’inchiesta emerge che la manutenzione sul Moby Prince fosse carente.

«Premesso che se una nave non è ok io dal porto non la faccio uscire, ma soprattutto c’è un ente, il Rina, che certifica quando una nave è a posto. È dopo l’incidente, quando si è deciso di attribuire la colpa all’errore umano, che si è andati a caccia di una eventuale avaria. Ma l’esito di tutte le numerosissime perizie, sia fisiche sulla nave che documentali sulle certificazioni della stessa, è stato sempre positivo. Preciso che a tali perizie prendevano parte decine di periti nominati sia dal pubblico ministero che dai parenti delle vittime. Ricordo addirittura che alcuni anni dopo l’accaduto fu effettuata una ulteriore perizia sul timone che era rimasto in tutto quel periodo all’addiaccio e privo di manutenzione, in quanto la nave era sotto sequestro, e il timone ancora una volta funzionò regolarmente. Molti accertamenti lasciavano il tempo che trovavano ma noi non ci siamo mai opposti».

Perché in questi trent’anni i suoi rapporti con i familiari delle vittime si sono deteriorati?

«Non parlerei di tutti. C’è un’ansia legittima pienamente condivisa di giustizia, ed è quello che vorrei io. Poi c’è il giustizialismo di chi vuol trovare un colpevole a tutti i costi. Sono due cose ben diverse».

C’è chi sostiene che l’accordo con la Snam sia stato un modo per ottenere l’appoggio dello Stato e da piccolo armatore diventare il re dei mari.

«Alla campagna mediatica di criminalizzazione in atto da un anno e mezzo nei confronti della mia persona rispondo con una storia di cinque generazioni di Onorato. Noi abbiamo iniziato a collegare la Sardegna nel 1880. Sono 140 anni e la Tirrenia manco esisteva. In seguito all’accaduto subimmo gravissimi danni finanziari e commerciali e per superare l’incidente fummo costretti a vendere due navi e ripartimmo daccapo. Il primo effetto era stato quello affettivo, psicologico della tragedia senza spiegazioni. Il secondo era la necessità di sopravvivere. Ma dire che la strage del Moby Prince sia stata la mia fortuna è veramente oltraggioso».

Mancano poco più di due settimane al 6 maggio, quando il tribunale di Milano dovrà decidere sull’istanza di fallimento chiesta dalla procura. È una corsa contro il tempo?

«Tutto quello che direi su questo tema verrebbe strumentalizzato. Preferisco fermarmi qui».

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