Detenuto morto a Massama, l’avvocata della famiglia: «Ora si faccia l’autopsia»
Armida Decina insiste sulla richiesta finora respinta dal giudice
Sassari Alle 13 sono arrivate alla Camera dei deputati per la conferenza stampa. Insieme a Marisa Dal Corso, sorella di Stefano, il 42enne morto nel carcere di Massama il 12 ottobre del 2022, c’erano l’avvocata Armida Decina, che difende Marisa Dal Corso, Rita Bernardini, presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino, e Roberto Giachetti, parlamentare di Italia Viva che ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, in cui chiede che sia fatta chiarezza sulle morti in carcere, compresa quella di Stefano Dal Corso su cui, dice Giachetti: «Grazie alla tenacia e alla fermezza della sorella Marisa e dell’avvocato Armida Decina pochi giorni fa sono state riaperte le indagini».
L’avvocata «A fine luglio abbiamo presentato una nuova istanza di riapertura delle indagini – conferma l’avvocata della famiglia Dal Canto, Armina Decina – che sono state effettivamente riaperte il 4 ottobre». Secondo l’avvocata, però, la strada sarebbe ancora in salita: «Sì, il fascicolo è stato riaperto ma l’autopsia non è stata ancora disposta. Speravo che i magistrati si muovessero in quella direzione, ancor prima di sentire i testimoni. L’autopsia è la chiave di volta di tutta la questione», conclude.
La storia Stefano Dal Corso aveva problemi di droga, la assumeva e la spacciava, e per questo stava scontando la sua pena nel carcere romano di Rebibbia. Fino a quando un’udienza al tribunale di Oristano gli aveva aperto la possibilità di cambiare aria ma, più di tutti, di incontrare la figlia avuta da una relazione con una ragazza sarda e residente proprio in provincia di Oristano. Il 6 ottobre del 2022 Stefano arriva al carcere di Massama dove, il 12 ottobre, muore. “Suicidio”, dirà il 13 ottobre l’infermiera del carcere di Massama all’ex compagna di Stefano, aggiungendo che “non ha sofferto perché lasciandosi andare si era spezzato l’osso del collo”. Una tesi subito contestata dalla famiglia di Stefano: «Secondo la dottoressa del carcere, Stefano sarebbe morto in seguito alle fratture delle vertebre cervicali – aveva detto l’avvocata Decina –. Il nostro medico legale ha sottolineato come sia in realtà impossibile definire questo tipo di frattura senza prima effettuare un’autopsia, o perlomeno una tac».
I pareri dei medici di parte, intanto, diventano tre e tutti arrivano alla stessa conclusione. E allora la famiglia chiede che venga effettuata l’autopsia che però non è prevista se il pubblico ministero non ravvisa un’ipotesi di reato. E infatti, il Gip accoglie la richiesta di archiviazione del Pm e sul caso cala il silenzio, perlomeno da parte della Procura. La famiglia di Dal Corso, però, insiste e per tre volte chiede che sul corpo di Stefano venga effettuato l’esame post mortem. Per la Procura non se ne parla, nonostante i dubbi aumentino: Stefano ha un ecchimosi sul lato del collo, e non all’altezza del mento. Il colore dell'ecchimosi, poi, sembra raccontare una tempistica diversa da quella dichiarata dalla direzione del carcere di Oristano, che sostiene di aver trovato il corpo poco dopo il decesso. Stefano, poi, si sarebbe impiccato alla grata della finestra della cella del carcere, dove però sarebbe riuscito a mettere i piedi sul letto, vanificando il tentativo. Infine c’è il letto, che nelle foto fornite dalla direzione del carcere risulta perfettamente rifatto. Difficile, a questo punto, spiegare dove Stefano abbia trovato il brandello di stoffa utilizzato per creare il cappio. Insomma, gli interrogativi non mancano.
Ma oltre ai dubbi della famiglia ci sono anche quelli che emergono dalle lettere che Stefano spediva all’attuale compagna, l’ultima il 10 ottobre del 2022, in cui non si evince in alcun modo l’intenzione di farla finita. Due giorni prima di morire Stefano scriveva “Siamo anime gemelle che con qualche sforzo possono avere una vita fantastica”. E in carcere, a Rebibbia, stava lavorando a quell’idea. Aveva seguito corsi dedicati al settore alberghiero, al giardinaggio e scriveva alla compagna di aver sostenuto un colloquio per un lavoro in ristorante. Perché Stefano non vedeva l’ora di uscire, sarebbe stato scarcerato il 31 dicembre del 2023, e di ricominciare a vivere. (c.z.)