Da Cagliari al Sudan: l’avventura di Roberta Murgia
L’informatica è in missione con Emergency: «Il nostro Centro di Salam non ha mai chiuso I medici hanno fatto i salti mortali per farlo funzionare»
Sassari In un ospedale di Khartoum, mentre il Sudan affrontava il secondo anno di guerra civile, Roberta Murgia ha vissuto una realtà che definire complessa è davvero riduttivo. Trentasei anni di Cagliari, ha lasciato un posto fisso in Italia per seguire un sogno che aveva da tempo: lavorare con Emergency in una zona di crisi. «Avevo raggiunto una posizione stabile come manager delle tecnologie dell'informazione in ospedale di Torino, poi nel settembre 2023 ho visto l'annuncio di Emergency per una posizione in Sudan e non ho esitato a candidarmi», ci racconta al telefono da Port Sudan dove si trova ora. In Sudan era in corso una devastante guerra civile, l'ennesima in pochi anni.
«Ho accettato un contratto a progetto per sei mesi – ci spiega – poi ci sono voluti diversi mesi per ottenere le autorizzazioni, e sono arrivata in Sudan solo nell'aprile 2024. Emergency opera dal 2007 a Khartoum con il Centro Salam di cardiochirurgia che, nonostante le difficoltà, non ha mai chiuso i battenti anche se ha dovuto temporaneamente sospendere le operazioni cardiochirurgiche per mancanza di materiali ed elettricità. I medici e gli operatori hanno fatto i salti mortali per mantenerla funzionante. Da noi arrivavano tutti i pazienti della zona perché gli altri ospedali erano chiusi. Per il nostro centro è fondamentale garantire l'assistenza ai pazienti operati al cuore che necessitano di cure continue e terapie anticoagulanti. Quella che doveva essere una missione semestrale si è prolungata di altri tre mesi a causa della stagione delle piogge che ha impedito al mio collega di raggiungere Khartoum».
La situazione nel paese è stata drammatica. «Alla fine di marzo 2025 le forze governative sono riuscite a riprendere il controllo di Khartoum dopo due anni di combattimenti. La situazione non è ancora del tutto tranquilla, ma è migliorata rispetto a quando la città era sotto assedio. Non potevano arrivare cibo, materiali, farmaci, mancava l'elettricità ed era impossibile muoversi». Il più lungo blocco alla movimentazione che hanno subito Roberta e il resto del team è iniziato a gennaio 2025 e si è concluso nei primi giorni di aprile, sopravvivendo con le scorte disponibili. «Per questo motivo, pur avendo concluso la missione a dicembre, non sono potuta rientrare in Italia. A Port Sudan, dove mi trovo ora, Emergency gestisce una clinica pediatrica. Sono qui per completare alcune attività nella clinica prima di rientrare in Italia».
Alla domanda perché abbia fatto questa scelta, Roberta ci risponde con semplicità: «Ho sempre voluto fare un lavoro utile, non solo un'attività professionale che portasse uno stipendio. Per me già lavorare in un ospedale è già motivo di grande soddisfazione. I miei familiari in Sardegna all'inizio ovviamente non l'hanno presa bene, ma sapere che andavo a lavorare per Emergency ha dato loro tranquillità». Hai mai avuto paura? «Per la mia incolumità no – ci dice – in ospedale eravamo abbastanza protetti. Abbiamo vissuto in una sorta di bolla. Ho avuto paura per le persone con cui lavoravo, per gli operatori locali e per i loro familiari. Da questa esperienza ho capito quanto spesso diamo per scontate libertà come poterci spostare o comunicare con i nostri cari. A Khartoum non avevamo rete mobile ma solo una connessione satellitare, quando anche questa è saltata è stata dura».
Roberta non ha dubbi: rifarebbe questa esperienza. «Ma non in Sudan, dove il percorso di ripristinare un team autonomo per la gestione dei sistemi informatici è ben avviato». La soddisfazione maggiore? «Aver dato un futuro alle persone che ho contribuito a formare. È il bello di Emergency, non interviene solo sul presente ma crea anche le basi per una ripartenza». Ora guarda al futuro: «Ho voglia di tornare in Italia e riprendere il mio percorso professionale, ma in futuro vorrei lavorare di nuovo per Emergency in un'altra parte del mondo».