La Nuova Sardegna

I retroscena

Il prestito in banca e l’incubo per un imprenditore sassarese, l’esattore era Graziano Mesina

Il prestito in banca e l’incubo per un imprenditore sassarese, l’esattore era Graziano Mesina

L’estorsione dell’ex bandito al sassarese Marco Milia

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Sassari Aveva bisogno di un prestito. Quarantamila euro che gli sarebbero serviti per iscrivere la squadra di basket Robur, di cui all'epoca era presidente, nella divisione nazionale B. Per questo nel 2011 Marco Milia - imprenditore sassarese titolare di tre ristoranti in città e figlio di Dino Milia, l'avvocato ex parlamentare e storico presidente della Dinamo basket fino al 2005 - si era rivolto al direttore di una filiale del Banco di Sardegna. In particolare a Pierluigi Meloni, allora responsabile degli uffici di via IV Novembre.

Ma non avrebbe mai immaginato, Marco Milia, che quei soldi avrebbe dovuto un giorno restituirli a Graziano Mesina. Sotto minaccia e con gravosi interessi, ovviamente. Perché non alle casse del Banco di Sardegna, ma a lui, si sarebbe rivolto Meloni per racimolare quella somma.

È uno degli “affari” che Grazianeddu aveva messo in piedi nel sassarese quello legato all’estorsione ai danni di Milia. Per la quale Mesina è stato condannato, con sentenza confermata in appello, a sei anni e otto mesi di reclusione (e Meloni a 5 anni). Che dimostra come la rete di rapporti di Mesina era talmente profonda da convincere il direttore di una filiale bancaria da rivolgersi a lui per ottenere contanti in tempi rapidi.

Soldi che Milia aveva chiesto alla banca, non immaginando che avrebbe dovuto un giorno restituirli a Graziano Mesina. «Sotto minaccia e con gli interessi» secondo gli inquirenti. Perché non alle casse del Banco di Sardegna (del tutto estraneo a quei fatti), ma all’orgolese, si sarebbe rivolto Pierluigi Meloni per ottenere la somma.

Quei soldi Milia li ebbe salvo poi scoprire che anziché 40mila euro gliene venivano chiesti indietro 50mila. E, soprattutto, che a reclamarli era Grazianeddu. Scriveva l’allora pm: «Mediante minaccia, costringevano Milia ad accettare l’accordo usurario e a consegnare loro le somme». Il tutto «in termini perentori, sfruttando la fama che lo precedeva, tale da incutergli timore per la propria incolumità». Meloni, sosteneva il pm nel processo di primo grado – accusa ribadita anche in appello – fece da intermediario tra i due «nella piena consapevolezza della illiceità dell’operazione».

Attraverso migliaia di pagine di intercettazioni relative a un’altra inchiesta si era riusciti a ricostruire “le relazioni” sassaresi di Mesina e in questo modo i carabinieri del reparto operativo del comando provinciale di Nuoro erano venuti a sapere del ristoratore sassarese. Le avvocatesse di Mesina, Maria Luisa Vernier e Beatrice Goddi, e il collega Agostinangelo Marras che difendeva invece Meloni, avevano chiesto l’assoluzione degli imputati. «Mai concesso prestiti a strozzo, mai preso un soldo in più di quanto avevo dato» ha sempre detto l’ex latitante definendosi «un uomo disponibile ad aiutare amici e conoscenti, ma senza mai sconfinare nell’usura». «Se il prestito c’è stato – aveva sottolineato Marras – non sono state rivolte a Milia minacce perché lo restituisse. I soldi sono stati consegnati in due tranche da 20mila euro, senza interessi e senza pressioni. Basti pensare che la seconda parte del denaro, come lui stesso ha riferito, l’ha data direttamente a Mesina nel parcheggio pubblico di un supermercato. A dimostrazione del fatto che non aveva paura».

Di diverso avviso i giudici che hanno invece deciso di condannare entrambi gli imputati.

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