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Fabio Aru si racconta: dai successi nelle grandi corse a tappe, alla vita dopo il ritiro

Massimo Sechi
Fabio Aru si racconta: dai successi nelle grandi corse a tappe, alla vita dopo il ritiro

Quattro anni dopo il ritiro dalle corse, Fabio Aru, l'ultimo italiano ad aver vinto una Grande Corsa a tappe, rivive la maglia rossa della Vuelta 2015 e parla del suo nuovo progetto: la Aru Academy. Tra ricordi, rimpianti e uno sguardo al futuro del ciclismo italiano

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Sassari Quattro anni dopo il suo ritiro dalle corse, Fabio Aru, l’ultimo italiano ad aver vinto una grande Corsa a tappe (la Vuelta del 2015), si racconta con la serenità di chi ha saputo reinventarsi. Dalla maglia rossa della Vuelta alla Fabio Aru Academy, passando per i ricordi di una carriera costellata di successi e qualche rimpianto, Aru ci guida attraverso il suo percorso, tra passato e presente, tra Sardegna e il mondo.

Come ha vissuto il passaggio dalla vita da professionista alla nuova quotidianità?

«Molto bene – risponde Aru senza esitazione. «È un cambiamento importante per gli sportivi. Quando per tanti anni fai quello che ti piace e sei abituato a una vita orientata all'allenamento e alle gare, smettere significa doversi ricreare una nuova routine. Nel mio caso, ero veramente deciso a smettere, e forse per questo è stato più facile. Oggi le mie attività con le aziende con cui collaboro e con la Aru Academy fanno sì che la mia quotidianità sia orientata su altre cose, sempre comunque legate allo sport».

Da subito ha deciso di non iniziare la carriera di direttore sportivo

«Questa decisione l’ho presa ancora prima di smettere. Non volevo più stare fuori casa per più di 200 giorni all'anno. Da ciclista stavo via per circa 270 giorni, e diventare direttore sportivo non avrebbe cambiato molto. Ora ho due figli, e la famiglia è la mia priorità».

La vittoria della Vuelta nel 2015 è stato il suo risultato più prestigioso

«Quando vado in Spagna, come è successo di recente per la presentazione della Vuelta 2025, i tifosi iberici mi riservano un calore molto emozionante. Vincere un Grande Giro è già di per sé qualcosa di speciale, ma devo dire che ad essere speciale è stato tutto il mio percorso, partito da un piccolo paese del sud Sardegna».

Come valuta lo stato attuale del movimento ciclistico italiano? Vede giovani che potrebbero emergere nei grandi giri

«A livello italiano siamo in attesa di un nuovo grande talento, soprattutto per le corse a tappe. Manca un po' chi riesce a finalizzare anche nelle gare di un giorno. Se devo fare un nome, penso a Pellizzari, un ragazzo di cui si sente parlare molto bene. Anche Tiberi, l'anno scorso quinto al Giro d'Italia, in prospettiva può essere un corridore molto forte per le corse a tappe. Entrambi ovviamente devono crescere molto, perché da un buon piazzamento a un podio la strada da fare non è poca».

Cosa manca oggi al ciclismo italiano per tornare a quei livelli nelle corse di tre settimane?

«Di base, come dicevo, manca il talento e quella capacità di riuscire a recuperare al massimo tappa dopo tappa. La preparazione viene fatta bene da tutti ormai quasi allo stesso modo. La differenza la fa proprio il talento».

Da sardo, quanto è stato importante per lei rappresentare l'isola nel ciclismo mondiale?

«È stato importantissimo. E infatti la scelta di creare la Aru Academy proprio in Sardegna, a Dolianova, nasce dai sacrifici che ho dovuto fare io per emergere. Il 25 maggio organizzeremo a Villacidro il campionato regionale di cross country mountain bike. Sarà l'evento più importante da noi organizzato da quando esistiamo, e ci teniamo a fare bella figura. Mi piace l'idea di poter dare una mano e contribuire a far venir fuori qualcuno che lo merita. Io ho dovuto allenarmi da solo, mi sono dovuto tesserare da Dolianova in una società di Ozieri per avere qualche opportunità in più di confronto a livello nazionale. Vorrei dare la possibilità ai ragazzi delle categorie esordienti e allievi di fare qualche allenamento e qualche gara in più anche fuori dalla Sardegna. I presupposti più importanti sono ovviamente che crescano in maniera sana, con i giusti valori etici e comportamentali. Poi spetta a me e a noi metterli nelle condizioni di poter fare un certo tipo di percorso di crescita».

C'è una corsa che sente di aver sfiorato e che ancora oggi le brucia non aver vinto?

«Il podio al Tour e un eventuale podio alle Olimpiad. Nel 2017 sono arrivato quinto al Tour, e con un po' di fortuna in più – negli ultimi giorni ho dovuto correre con una bronchite – sarei potuto arrivare tra i primi tre. Alle Olimpiadi del 2016 invece ho corso gli ultimi 15 km con i crampi, e anche in quel caso il podio era alla mia portata».

Cosa consiglierebbe ad un giovane ciclista sardo?

«Sicuramente di crederci. Spesso capitava anche a me di buttarmi un po' giù per le difficoltà in più che abbiamo rispetto agli altri. Un lombardo con un'ora di macchina può confrontarsi con gare di un certo livello. Per noi sardi c'è sempre da fare qualche sacrificio in più».

Un ciclista che apprezza?

Se devo fare un nome dico Tadej Pogacar. È stato mio compagni di squadra. È il piu completo di tutti».

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