Intervista con Renato Pozzetto: «Amo La Maddalena e tornerò»
Il lungo viaggio dell’attore premiato con il Nastro d’argento alla carriera. Il cinema, le vacanze nell’isola, i premi. «Sì, la vita l’è bela»
Eravamo abituati alle sue canzoni intelligenti con Cochi, ai suoi tour sul trattore nel traffico di Milano o a cavallo di una scopa sopra il Duomo con Eleonora Giorgi in versione streg. O ancora ai suoi film campioni d’incasso in coppia con Celentano, Verdone e Villaggio. In quasi sessant’anni Renato Pozzetto è riuscito a strappare tantissime risate agli italiani, magari amare o anche “intelligenti” come la sua canzone più famosa. Questa volta, invece, per le risate non c’era spazio. Solo tante lacrime e commozione. Il ritorno al cinema di Pozzetto fortemente voluto da Pupi Avati, infatti, è stato anche il suo debutto in un ruolo drammatico, quello di Nino Sgarbi, padre di Vittorio ed Elisabetta, che dopo 65 anni di matrimonio resta vedovo della sua amata Rina. Un’interpretazione struggente, intensa, che al grande attore milanese, 81 anni a luglio, gli è valsa una nomination ai David di Donatello e il Nastro d’argento alla carriera. Insomma, oltre il pubblico, è tutto il mondo del cinema ad avere apprezzato la svolta drammatica di Pozzetto in “Lei mi parla ancora”.
Nastro d’argento alla carriera: che effetto fa?
«Mi fa ovviamente piacere».
Il Nastro compensa la delusione per il mancato David?
«Guardi che non è vero che ho detto di esserci rimasto male, se lo sono inventati i suoi colleghi. Io sono stato molto contento di avere ricevuto la nomination, anche perché era per un film diverso da tutti quelli che avevo fatto finora. Essere candidato per un film drammatico è stata una sfida vinta. Ho detto anche però che mi sembrava strano che non fosse stato menzionato Pupi Avati, il film, la regia».
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Nel film al suo fianco c’era una grandissima Stefania Sandrelli.
«La Sandrelli è bravissima, ma purtroppo non possiamo parlare di coppia sul set, perché il suo è un piccolo ruolo».
Com’è stato l’incontro con Pupi Avati?
«Mi ha chiamato una mattina di un anno fa, a metà luglio. “Sai, volevo offrirti una parte da protagonista di un film che inizio a girare tra una settimana”. “Devo tappare un buco?”, è stata la mia risposta. Ma lui mi ha assicurato di no. “Voglio parlartene di persona, leggiamo il copione insieme”. Io ho insistito. “Inviamelo oggi, poi domani vieni a casa a Milano e ne parliamo davanti a un piatto di spaghetti”. E così abbiamo fatto».
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Qual è stato il suo primo pensiero quando ha letto il copione?
«Dopo avere letto qualche pagina ho pensato avessero sbagliato film. Sono ritornato agli appunti di presentazione e invece mi sono reso conto che il personaggio era proprio quello lì. Era un ruolo drammatico. Il soggetto era scritto molto bene, la sceneggiatura mi è parsa subito buona. Prima che arrivasse Pupi a casa, ho riletto il copione un paio di volte e mi sono sentito abbastanza tranquillo. Mi sono convinto che quel ruolo lo avrei potuto fare dignitosamente».
La sua interpretazione è struggente, vera. Nel 2009 lei ha perso sua moglie Brunella: si è rivisto nei panni di Nino Sgarbi?
«Questo non c’entra. Io faccio l’attore, non ho mica imparato a recitare perché una persona cara è morta. Io ho perso mio fratello, ho perso mia moglie. Purtroppo sono fatalità che nella vita possono capitare a chiunque».
Nel film interpreta il padre di Vittorio Sgarbi: cosa le ha detto della sua interpretazione?
«Sono stati molto gentili sia lui che sua sorella Elisabetta. Lei sul set era più presente, lui seguiva il film dal di fuori. Ma ci è sempre stato molto vicino. E dopo il film mi ha anche telefonato per farmi i complimenti per come avevo reso il personaggio del padre. È stato molto affettuoso e lo è ancora oggi».
Il suo nome è legato da sempre a quello di Cochi Ponzoni: quando nasce la vostra amicizia?
«Noi ci siamo conosciuti perché eravamo figli della guerra. Io sono del 1940, lui del 1941. Ci siamo incontrati perché tutti e due eravamo vittime dei bombardamenti. Abitavamo a Milano in una zona che si chiamava Parco Solari, c’erano le carceri, le industrie che facevamo armi. Insomma, era una zona sensibile, eravamo un facile bersaglio. E infatti le nostre famiglie persero la casa e sfollarono a Gemonio, sul lago Maggiore. Lì si incontrarono i nostri genitori, i nostri fratelli. Insomma, le nostre famiglie diventarono amiche».
La vostra amicizia quando si tramuta in sodalizio artistico?
«Nella nostra gioventù tornavamo sempre a Gemonio per le vacanze estive e lì abbiamo iniziato a strimpellare la chitarra, a cantare le canzoni popolari. Poi a Milano abbiamo iniziato a frequentare una osteria di artisti. Ci arrivammo grazie all’amicizia con il pittore Piero Manzoni. E così siamo capitati in mezzo ad altri artisti che non erano ancora affermati. Tra me e Cochi c’era già la voglia di stare insieme, suonare la chitarra. Poi aprirono una galleria d’arte notturna dove passavano tutti i nostri miti: Enzo Jannacci, Giorgio Gaber, Maria Monti, Dario Fo. Noi eravamo felicissimi, perché quando c’erano le inaugurazioni delle mostre potevamo esibirci davanti ai nostri miti».
Quando avviene il passaggio al cabaret?
«I proprietari della galleria decisero di aprire un cabaret, il Cab64, che iniziò a essere frequentato da Jannacci, Gaber, Fo. Diventammo amici, ogni tanto passavano e ci davano una mano. Era un posto piccolissimo con un pubblico ristretto, ma qualcosa di divertente c’era perché la gente cominciava a frequentare in maniera più assidua. Un paio d’anni dopo Jannacci ci disse: “Se volete venire con noi apriamo un cabaret al Derby”. Ai tempi nel locale suonavano il jazz. Il proprietario ci invitò in gruppo: eravamo Bruno Lauzi, Enzo Jannacci, Lino Toffolo, Felice Andreasi, Cochi e io. Formammo il Gruppo Motore che faceva parte di quel tipo di cabaret che allora non era ancora conosciuto in Italia. Un cabaret che nasceva a Milano».
Il Derby è stato il tempio del cabaret. Oggi i comici arrivano quasi direttamente in tv. Non crede che sia un successo più effimero?
«Noi facciamo spettacolo, che è fatto da chi recita e dal pubblico che vi assiste. Certo, in televisione il successo arriva più in fretta ed è un vantaggio per chi ce le fa. Ma è anche un vantaggio per chi non è capace, perché lo viene a sapere subito. Al di là di quello, oggi il livello si è abbassato».
Quando ha capito che Cochi e Renato avevano sfondato?
«C’era una trasmissione della domenica pomeriggio condotta da Paolo Villaggio. La tv era ancora in bianco e nero. Dovevano essere 6 puntate e noi eravamo stati invitati alla prima. Ma andò bene e ci confermarono. Noi dovevamo essere un esperimento e durammo invece tutte le 6 puntate previste, che poi diventarono 24. Voleva dire che il pubblico ci stava. “Quelli della domenica” fu l’inizio della nostra notorietà, culminata nella “Canzonissima” con la Carrà».
Ma è vero o no che il cinema vi fece allontanare?
«Mentre stavamo facendo “Canzonissima” io stavo girando un film in Spagna. C’era una parte sola e la offrirono a me. Il periodo si accavallava proprio con il varietà della domenica e così chiesi a Cochi se potevo allontanarmi. Lui mi diede il permesso. Il lunedì andavo a Madrid, il venerdì tornavo per fare le prove, sabato registravamo e il lunedì ripartivo in Spagna».
Il film era “Per amare Ofelia” di Flavio Mogherini con Giovanna Ralli, che le spalancò le porte del cinema.
«Fu un buon successo di incassi. Ricevetti anche un David di Donatello come attore al debutto. Sinceramente mi sentivo un po’ in colpa con Cochi, ma immediatamente dopo sono arrivate anche le proposte per lui. Il suo primo film fu nientepopodimeno che “Cuore di cane” di Alberto Lattuada. A quel punto nessuno si poteva più lamentare».
Tra gli anni Settanta e Ottanta lei è uno dei re della commedia italiana: c’è un film o un personaggio a cui è più legato?
«Il film che ha avuto più successo è sicuramente “Il ragazzo di campagna”. Ma più o meno tutti gli altri sono andati bene. Anche perché mica al cinema puoi sbagliare dieci volte. Alla fine posso dire di avere fatto una buona carriera. E infatti ora mi premiano per quello».
Nel 1987 esce “Da grande”, la storia di un bambino che magicamente si ritrova adulto. Sei mesi dopo in America esce “Big!” con Tom Hanks. C’è chi sostiene che sia stato copiato da quello italiano.
«Guardi, io non so come sia successo. So solo che io avevo già fatto il film di Franco Amurri quando uscì il “Da grande” americano. Non so come ci siano arrivati».
Pozzetto e la Sardegna: quando nasce l’amore per l’isola?
«Con mio fratello Achille non eravamo solo fratelli, eravamo proprio amici. Lui era un imprenditore immobiliarista che quando ci fu il successo della Costa Smeralda fece un giro per capire dove trovare lavoro. Arrivò alla Maddalena e insieme a un amico comprarono una vecchia caserma dei carabinieri ristrutturata. Ne fecero diversi appartamenti e uno lo abbiamo tenuto per le nostre famiglie. Non è difficile innamorarsi della Maddalena. Io abitavo proprio a Cala Gavetta, sopra il Bar Sport. Tra me e il mare c’erano sette metri».
Aveva anche la barca?
«Certo, uscivamo spesso per andare a fare il bagno. Mi incontravo spesso con Paolo Villaggio. Lui aveva casa a Bonifacio. Quando eravamo in mare ci sentivamo via radio, ci davamo appuntamento e ci ritrovavamo con le nostre famiglie»
Viene ancora alla Maddalena?
«Meno di prima per via dell’età, ma la casa me la godo ancora. Non vedo l’ora di tornarci, spero questa estate».
Lei è anche un appassionato di motori: quante Parigi-Dakar ha corso?
«Ne ho fatte tre. La prima volta, la notte in cui morì Sabine, il fondatore, ci si ruppe l’auto in una tappa complicatissima, oltre 900 chilometri, e ci ritirammo. Quell’anno incontrai il campione che l’anno prima aveva vinto nella categoria dei camion. L’edizione dopo la feci con lui. Insieme siamo arrivati due volte al traguardo».
Cosa è Milano per lei?
«È la mia città, sono nato là ed è dove ho cominciato a fare il saltimbanco. È una città che offre a chi vuole proporsi in qualsiasi settore la possibilità di misurarsi».
È ottimista sulla fine della pandemia?
«Sì, seguo quello che dicono la stampa, la tv e soprattutto gli scienziati. E comunque sono vaccinato con richiamo».
A quasi 81 anni può trarre un bilancio: alla fine la vita l’è bela?
«Faccio un lavoro che mi piace: non posso che ritenermi fortunato».
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