Giovanni Columbu: «Mia zia, donna lucida e coraggiosa. Portai al cinema il suo Arcipelaghi»
Il regista ricorda Maria Giacobbe, sorella della madre. «Può essere considerata l’erede di Grazia Deledda per la sua scrittura concreta». Il libro è in edicola con La Nuova Sardegna
Prima ancora che grande scrittrice la definisce «una donna estremamente lucida e coraggiosa». D’altronde Giovanni Columbu non è un semplice ammiratore delle opere di Maria Giacobbe, ma come nipote dell’autrice recentemente scomparsa ha avuto l’occasione di conoscerla bene. A sua zia (sorella della madre) è legato anche un momento importante del suo percorso da regista, la realizzazione del film “Arcipelaghi” uscito nel 2001 e tratto dal romanzo “Gli arcipelaghi” da oggi disponibile con La Nuova Sardegna.
Ricorda la prima volta che ha letto il libro?
«Prima ancora della pubblicazione ebbi la possibilità di leggere il dattiloscritto e ricordo che mi piacque subito tantissimo. Un grande romanzo dove si racconta la storia di un omicidio, e di una vendetta, con uno schema che fa pensare al film di Akira Kurosawa “Rashomon” in cui una serie di testimoni rievocano in modo diverso qualcosa che accaduto. In “Arcipelaghi” succede nel tribunale di Nuoro, anche se nel romanzo non è indicato un luogo preciso. Girammo proprio là, ma soprattutto nelle campagne di Ovodda e per alcune scene ci spostammo a Gavoi».
Quando propose a Maria Giacobbe l’idea di farci un film lei come reagì?
«Prima di tutto facemmo un patto che riguardava la libertà di tradire l’opera originale. Entrambi convinti che solo così, paradossalmente, si possono avvicinare due forme di narrazione diverse. Questo testimonia anche una sua profonda consapevolezza dei meccanismi della trasposizione che non possono attuarsi in termini di stretta aderenza, ma hanno bisogno di passare attraverso una sorta di reinvenzione nel nuovo medium. Il cinema rispetto alla letteratura ha un suo linguaggio e delle esigenze specifiche».
Le fece anche leggere la sceneggiatura prima di iniziare a girare?
«Su questo posso raccontare un aneddoto. Pur incoraggiato dal patto che avevamo stretto sulla libertà di tradire la sua opera, non ebbi il coraggio di farle leggere la sceneggiatura perché a un certo punto decisi di cambiare qualcosa di davvero sostanziale: chi concretamente compie la vendetta. Con una soluzione simile a quella utilizzata da John Ford nel western “L’uomo che uccise Liberty Valance” in cui il duello finale è deciso dallo sparo di una terza persona nascosta nell’ombra».
Ma quando poi vide il lungometraggio che disse?
«Per fortuna rimase molto soddisfatta. Le andava benissimo la diversità rispetto al romanzo».
Ha mai pensato di trarre altri film dalle sue opere?
«Certamente mi sarebbe piaciuto fare altre cose, purtroppo non è stato possibile anche perché fare cinema è sempre molto difficile. Ricordo di averne parlato con lei alcune volte che sono andato a trovarla a Copenaghen. Di sicuro se le buone storie sono il punto di partenza per la realizzazione di ogni film, quelle raccontate da Maria rappresentano un’ottima base».
In questo senso si può definire cinematografica la scrittura di Maria Giacobbe?
«Secondo me sì. Credo possa essere considerata la vera erede di Grazia Deledda per la stessa modalità di racconto basata su una scrittura concreta, proprio quella di cui ha bisogno il cinema. Si potrebbe quasi prendere un suo libro e andare subito sul set a girare».